Disfacimento-rifacimento in Mariella Bettarini

di Silvana Folliero

dalla rivista Fermenti n. 11/12, Novembre/Dicembre 1976

Da troppo tempo, ormai, siamo abituati a vedere gli scrittori, i poeti, tutti gli operatori culturali separati da se stessi, dalla più segreta e necessaria identità (l'io e il prodotto dell'io, il privato e il pubblico, il pensiero e l'azione: due gruppi paragestuali oggi distanti tra loro mille anni luce, galassie lontanissime). Sono decenni che assistiamo inerti allo scempio psicologico e comportamentistico, all'ipocrisia di bandiera, alla vendita fin troppo facile e legittimata dell'intelligenza. Artisti in doppio petto, senza un capello fuori posto, l'occhio sereno, Io sguardo corto — tutt'al più copre la distanza che passa tra una sedia e il proprio tavolo da lavoro zeppo di fogli ciclostilati e di veline — mai un guizzo di follia, uno scatto d'ira, un grido, uno solo, di disperata rivolta. Niente di tutto questo.
Scrittori e poeti vezzeggiati e protetti, seduti in poltrona, coccolati dall'ideologia s'innestano nel sistema e non fanno rumore, al massimo uno starnuto. Ridono delle anarchie e delle utopie. Siamo, ormai, da molto tempo disabituati a vederli sporchi, laceri, perseguitati, dannati.
Per cui incontrare, conoscere — finalmente — uno scrittore che ha saputo fare della propria vita una « specificità » lacerante e dei proprio lavoro la manifestazione sprezzante e logica dèlia coscienza e del simbolo singolo e collettivo, che non ha più pazienza e dice basta uscendo all'aperto, portandosi dietro l'auspicata rivoluzione globale, è davvero un autentico se gnale d'allarme.
Parlare con Mariella Bettarini, incontrarla nel suo piccolo studio fiorentino, a Borgo Santi Apostoli, sulle cui pareti non c'è congegno matematico ma libera interpretazione di un vissuto, sofferto e accettato, intelligentemente risolto in due grandi ritratti, Granisci e Pasolini, vuoi dire uscire dal ghetto dell'ignavia, dall'astratto, dal buio e dal silenzio. E' capire in profondità e per estensione (ripercorrendo tutta la cultura e la non cultura del novecento, rossa fiammata del morente secolo) le sue stesse parole, lette nelle prime pagine di un suo recente libro, Felice di essere, (Gammalibri):
« Non potevo, non potevamo pazientare più. Non potevo non potevamo più patire. Capii, capimmo che non era legittimo, che non era giusto... Restiamo noi e la nostra concreta carnale politica individuale collettiva realtà entro questa Italia che ha troppo onorato le mamme e troppo vilipeso le puttane, ha troppo pregato e poco combattuto, troppo crocifisso e poco liberato... La donna dice basta a questo inganno perpetrato contro se stessa (e insieme contro l'uomo). Dice basta all'idiozia, all'incultura, alla compravendita, alla logica illogica del più forte, alla triste pantomima dei tabù replicati su tutti i muri di questo mondo di ombre ».
La parola della Bettarini è pronunciata, nasce e si sviluppa sul versante della completa liberazione della donna, ma è anche gridata sul fronte antropologico totale, poiché in essa noi scorgiamo la vanga che affonda, la voce che ipotizza il futuro e dà un senso al tradimento, alla stortura, alla vergogna di oggi. Il volume, Felice di essere, contiene scritti e saggi sulla condizione della donna e sulla sessualità, «per affermare (si legge nel testo) noi stesse e per dare coraggio e vigore a quanti e quante — donne, omosessuali, diversi, oppressi d'ogni età, sesso, paese — ancora non riescono ad essere felici di essere ». Il discorso della Bettarini è un'esigenza di antropologia culturale.
Mariella vuole affermare se stessa nel bisogno cosciente di colmare il vuoto e la discriminazione tra sé e gli altri. In questi suoi articoli critici e polemici la donna è e resta in frontiera, ma tutto un « cosmo » ideologico-prestabilito va in pezzi, per poi essere ricomposto a misura d'uomo, un uomo non schiavisticamente integrato alle strutture né immerso nella prassi, bensì fiero, già alle soglie di una autoidentificazione storica che lo porterà gradualmente alla fondazione dell'essere, all'appagamento delle proprie necessità psico-fisiche (fra l'altro l'A. propone la validità e positività della coppia omosessuale) nella difesa di tutte le minoranze esistenti nella nostra società .
Mariella Bettarini è per una sessualità libera, creatrice, «svincolata dall'equazione sesso uguale procreazione», d'indubbia matrice fideistica e dogmatica, liberata dai falsi profeti dell'ego, da ogni tipo di cultura patriarcale, maschilista, gerarchizzata che subordina, comunque, l'utopia all'ideologia, l'invenzione alla descrittività, il desiderio e la forza alla prudenza e alla moderazione. In tale contesto il corpo proprio acquista la sua grande funzione epistemologica nel pensiero cosciente individuale e nel linguaggio collettivo.
In questo disfacimento-rifacimento vengono a trovarsi nell'occhio del ciclone trasgressione e reingresso nell'inconscio, la memoria di sé e della propria infanzia, i tabù, le regole, le paure, il confronto-conflitto con il padre, l'odio verso il « fallocentrismo ». Non sempre, però, il coagulo si fa sicuro traguardo; a volte la Bettarini si scontra con il suo stesso farsi coscienza di una colpa non commessa, di una necessità storica che la supera, in un orgasmo di ribellione e di revisione che la denuda e ci denuda, integrandoci — però — nel contempo ad un universo azzerato d'ogni certezza disinfettato d'ogni scoria settoriale e partitica.
E l'arte è al centro della trasmutazione in una continua progressione di casualità e di eventi, promotrice di manifestazioni edonisticamente sotterranee, prive di qualsiasi utilitarismo, testo integrale del piacere.
In un tale quadro di promozione e creatività interpretativa è, indubbiamente, esemplare l'operetta, Storia d'Ortensia, dal tono asprigno, leggermente surreale, puntualizzante fatti e misfatti di un ambiente, dove tutto si fa gusto del parlato e necessità antropomorfica: un destino familiare che trova spazio e concetto nella soggettività esangue di una donna. Realtà, politica, costume. Un'immersione nelle vicende insinuanti di un personaggio che vive tra canoniche, matrimoni, cortei e delitti; tra parole e gesti scomposti di padri-dittatori-gerarchi-santi nocchieri, urla e scomuniche. Si fa, allora, parola sapiente e linguaggio la nozione di conflitto, là dove l'A. individua i guasti di un'educazione, di un precetto, di una mentalità che non hanno saputo far altro che distorcere, avvelenare, annichilire i rapporti umani, quelli autentici privi di sensi di colpa o peccati da scontare ma hanno solo gioia da condividere. In questo grande recupero dell'io — che sta fra il principio del piacere e il principio della realtà, l'inconscio e il pensiero cosciente, la sessualità e la politica, il corpo assume un ruolo-base, di progetto totale, di linguaggio del vissuto, di fondazione storica.
« Un corpo — dice la Bettarini — che è essere e non avere, affermazione dell'essere ». E l'inscindibilità — insomma — dei propri luoghi psichici, del proprio ruolo, delle proprie utopie che diventano a poco a poco, per osmosi generale, umori, idee e gesti collettivi.

Silvana Folliero