Cielo di stelle

Racconto di Gemma Forti

apparso sulla rivista Fermenti  N. 223

Il cielo brillava di stelle, mentre un'aria frizzante avvolgeva spumosa il cranio rasato di padre Vito.

Egli era disteso sull'erba umida della notte, di mezza notte per essere esatti, di una mezza notte qualunque di una qualunque mezza estate.

Era disteso supino, il grasso volto proteso in alto, mentre il corpo massiccio poggiava saldamente ancorato ai piedi della quercia secolare, svettante sul sagrato della chiesa di Santa Chiara.

Erano questi i resti dell'antica chiesa romanica, splendida prima della seconda guerra mondiale, ed ora, un pietoso rudere in disuso, a causa dei bom­bardamenti, ubicato lontano dal centro abitato, nel bel mezzo della campagna, circondato da argentei uliveti.

Chissà cosa avrebbero detto i fedeli se l'avessero visto in quel luogo, a quell'ora e in quella posizione.

Già, cosa avrebbero detto i devoti abitanti di quel solitario paesino arroccato sulla ripida montagna?

"Il parroco è impazzito. Il nostro amato parroco è uscito di testa. Va bene che ha mostrato sempre delle stranezze, sin dal suo arrivo, andando in giro sen­za veste talare, con quella sua camiciola bianca aperta sul petto, pieno di calore anche con il freddo più pungente. Mai col cappotto, anche sotto la neve, e di neve d'inverno ne cade parecchia. Solo con una giacchetta di panno scuro, sem­pre la stessa" avrebbe commentato la signorina Rosina, sbattendo le palpebre nel pigro circolo delle comari che ogni pomeriggio, alle tre in punto, si riunivano a spettegolare davanti alle misere porte delle case o nella piazzetta antistante la chiesa parrocchiale.

Ma cosa facesse di preciso Don Vito, non lo sapeva bene neanche lui.

Egli aspettava. Egli aspettava che avvenisse, che si avverasse quanto ormai riteneva certo, che si compisse in qualche modo il suo destino.

Ma l'attesa era lunga. Più lunga del previsto.

Erano già passate due ore. Tutta l'umidità notturna della campagna pene­trava, ormai, nelle sue ossa non più giovani, irrigidendole.

Era rimasto immobile nella posizione iniziale, con gli occhi rivolti al cielo, che fissavano ormai stancamente quei piccoli punti luminosi che vedeva pian piano rimpicciolirsi, anziché ingrandirsi ed aumentare di spessore.

Le palpebre cominciavano ad appesantirsi sempre di più, sino a serrarsi ermeticamente sui cerulei occhi sbarrati.

Qualche secondo ancora e don Vito si aggirava confuso nel mondo latteo dei sogni.

Stava nella sua stanza, nel suo letto, il volto rivolto al vecchio soffitto an­nerito dal fumo della stufa a legna.

All'intorno buio fitto. Quando, all'improvviso, una luce sfavillante irrom­peva nella stanza, illuminando a giorno ogni oggetto.

Il soffitto si era sollevato di colpo, lasciando scoperta la volta celeste.

Le stelle, il sole e la luna insieme irradiavano fasci luminosi di calore, che scaldavano la sua pelle infreddolita.

Poi da quei fasci iniziavano a formarsi delle lunghe escrescenze lattigino­se, che si allungavano filiformi e fosforescenti verso di lui, assumendo man mano che discendevano la forma di eleganti figure diafane, che presto riempivano la stanza.

Giovani volti di uomini e donne bellissimi gli sorridevano, avvicinandosi sempre di più, sino a sfiorarlo. Qualcuno tentava di carezzargli la nuca. Una fi­gura sottile, l'emblema di una giovane donna dai lunghi capelli biondi, cercava di baciarlo.

Ma appena si avvicinavano egli sentiva solo un soffio leggero, come il te­nero frullare di una lieve piuma di cigno.

Non riusciva a sfiorare queste immagini, anche se sentiva dilatare nel pet­to una sensazione di appagamento partecipe, mentre il suo corpo immobile si fondeva con loro all'unisono in un orgasmo liberatorio.

Questo era ormai il sogno predominante delle sue notti solitarie.

Ma era un sogno o una realtà? Se lo chiedeva ogni volta don Vito.

Purtroppo, ad ogni risveglio, tutto appariva uguale, come sempre.

Il soffitto era al suo posto e così il tetto della povera canonica dove viveva in gran disordine, circondato da decine di gatti, sempre affamati, che entravano ed uscivano dalla porta che di giorno teneva socchiusa.

Si alzava presto don Vito. Alle cinque del mattino era già in piedi.

Si lavava rapidamente con l'acqua fredda, vestendosi altrettanto rapidamente.

Poi si preparava un lungo caffè amarognolo, che addolciva con un cuc­chiaino di miele, unico lusso del mattino.

Recitava, quindi, le abituali preghiere e dritto in chiesa.

Era solo, senza chierichetti e doveva preparare il necessario per la Messa, la prima Messa, alla quale assistevano quattro o cinque donnine infreddolite in inverno ed accaldate in estate, sempre le stesse e spesso in lite tra loro per futi­li motivi, che in quel paese isolato assumevano dimensioni gigantesche.

La domenica, invece, la Chiesa si animava di giovani e faceva l'appari­zione qua e là anche qualche uomo.

Allora egli doveva declamare un sermone di effetto, alla cui preparazione dedicava diverse ore dei rimanenti giorni della settimana.

In quel paese non succedeva mai nulla. Sembrava che il tempo si fosse fer­mato al di là della montagna, rendendo ogni cosa irreale. Padre Vito, al secolo Giorgio Salini, era arrivato colà da circa dieci anni.

Aveva allora appena cinquant'anni ed era, quindi, ancora piuttosto giova­ne di età, ma logorato nel fisico a causa di un trentennio di esperienza missio­naria, prima in Africa e, successivamente, nel Centro America, dove era venuto a contatto di ogni miseria e sofferenza.

Aveva assistito, apparentemente imperturbabile, a guerre, epidemie, care­stie, catastrofi naturali e disgrazie di ogni genere.

Era partito appena ventenne, dopo aver preso i voti, da Genova, con gran­di speranze ed energie, fiducioso nella forza della fede, che sentiva prorompere dal petto.

Poi il contatto con la cruda realtà invece di rinforzare la sua anima, l'aveva man mano infiacchita, indebolendo di conseguenza anche il fisico costitu­zionalmente robusto.

A contatto della sofferenza aveva cominciato a dubitare dell'esistenza di Dio, di quel Dio che sentiva allontanarsi ogni giorno sempre di più.

Eppure egli faceva del bene, si occupava di ammalati e sofferenti, illustrava la parola del Vangelo.

Perché Dio non gli mostrava della riconoscenza, confortandolo, sostenendolo, rafforzandolo, come invece accadeva per altri suoi colleghi?

Perché Dio gli era così ostile?

Se lo chiedeva spesso, soprattutto durante le crisi ricorrenti di febbri malariche che aveva contratto in Africa.

Nel Centro America, poi, era stato colpito da una misteriosa infezione che aveva cominciato a debilitarlo definitivamente, tanto che le autorità ecclesiastiche avevano deciso il suo immediato rientro in Italia.

Aveva ormai quarantotto anni. Aveva solo quarantotto anni e se ne sentiva addosso più di cento.

Nei primi due anni del suo rientro, non aveva fatto altro che varcare la so­glia d'ospedali per analisi e cure.

Al compimento dei cinquanta anni, apparentemente ristabilito, ma non ri­tenuto più idoneo a sostenere degli sforzi, era stato inviato quale parroco in quel piccolo paesino della Marsica, dove c'era poco o niente da fare.

Qui il suo fisico si era irrobustito e rafforzato.

Stranamente erano cessate le febbri ricorrenti. Però qualcosa nella sua mente aveva iniziato a vacillare.

Dopo i primi anni di permanenza, di apparente normalità, una strana apa­tia si era impossessata man mano di lui, rendendolo pigro ed indolente.

Non si poneva più alcun interrogativo.

Tutto gli sembrava ora regolare, di giorno. Mentre, la notte, degli strani sogni avevano cominciato a popolare la sua mente.

Erano circa sei mesi, che faceva ricorrentemente quello strano sogno.
Ormai non riusciva più a distinguere se fosse realtà o fantasia.

Si era convinto, dato che non credeva più nell'esistenza del Dio tradizio­nale, di essere venuto a contatto con degli extraterrestri, i quali avevano assunto le sembianze della divinità.

Erano umani di altri pianeti, di lontane galassie, dai quali certamente anche egli derivava.

In questo modo riusciva a spiegarsi la sua sempre maggiore estraneità agli abitanti del pianeta Terra.

Quella notte egli era disteso ai piedi della quercia della Chiesa di Santa Chiara, perché la mattina, durante la messa, mentre inghiottiva l'ostia, aveva visto per la prima volta anche di giorno, in pieno giorno, al posto del Santissimo, l'effigie diafana della giovane donna bionda, che popolava le sue notti.

Ella gli aveva detto chiaramente, a voce alta, con un tono dolcissimo e carezzevole:

"Vito, caro Vito, questa notte, a mezza notte in punto, fatti trovare davan­ti alla Chiesa di Santa Chiara.
Ti verremo a prendere con la nostra astronave, per portarti definitivamen­te con noi, nel nostro mondo di luce:
È giunta la tua ora.
È arrivato il tuo riscatto.
Vieni, vieni con noi....".

Gemma Forti