Il letto rosso

Racconto di Gemma Forti

apparso sulla rivista Fermenti  N. 225

"Sempre questo mal di testa fisso che mi serra le tempie e grava sugli occhi" penso, mentre mi rigiro nel letto di damasco rosso, a forma di cuore. Apro prima l'occhio destro, poi il sinistro, lentamente. Una leggera nebbia mi appanna la vista.
Da qualche giorno non vedo chiaramente soprattutto dalla parte sinistra.
Oggi pomeriggio prenderò un appuntamento con il dottor Fabiani. Mi farò accompagnare da Sibilla.
La bocca è impastata al risveglio. Lo stesso sapore acre in bocca.
Devono essere i sonniferi, che ormai prendo ogni notte prima di addormentarmi, a lasciare quel sapore acidulo. Ma no, è senz'altro l'alcool che ho ingerito ieri sera. Ora che mi ricordo, ho bevuto champagne. Doveva essere senz'altro di pessima marca.
Da diverso tempo ormai non riesco ad addormentarmi se dopo il Tavor non bevo alcune coppe di champagne.
Da piccola ero ghiotta di latte, poi di acqua oligominerale. Da trent'anni, cioè dai primi anni settanta, non posso fare a meno di assumere la mia droga quotidiana di champagne. Roldano mi ha viziato. Vado a letto alle prime luci dell'alba, mentre mi risveglio alle undici, undici e trenta, quando la gente comune è in piedi già da un pezzo. Ma io non ho niente da fare.
Fino a quando era in vita Roldano, è morto nel gennaio del 1985, stroncato da un infarto, ero sempre impegnata. Non che facessi lavori manuali, c'erano altri che li facevano e fanno ancora per me, ma la posizione sociale di Roldano, congiunta alla professione di armatore, mi costringeva a stare in contatto con molte persone, a coltivare una rete di fìnte ma utili amicizie, di alto livello. La sua attività ci portava a viaggiare continuamente, poco per diporto, quasi sempre per estendere contatti al di fuori dell'Italia. Eravamo belli, giovani, molto chiacchierati, richiesti in ogni incontro mondano. Allora avevo una cura maniacale del mio corpo. Alta, vistosa, con dei lunghi capelli castani che tingevo di rosso e di biondo, a seconda dell'umore, facevo ginnastica e massaggi giornalieri per rendere il mio corpo elegante.
Roldano, dai capelli precocemente brizzolati, non molto alto, ma dotato di un fisico vigoroso e scattante, era un uomo di successo.
Mi aveva conosciuto giovanissima, a soli venti anni.
Io, figlia di un lattaio, divenuto poi un piccolo imprenditore, ero rimasta affascinata dal suo fare elegante e soprattutto dalla sua ricchezza. Invero la ricchezza emana un fascino irresistibile, soprattutto per una piccola borghese quale ero io allora. Già allora lo ero. Ma ora cosa sono? Niente di meglio. Forse la stessa di prima, ma con più orgoglio e spocchia.
Per quanto mi lavi e profumi, usando i prodotti migliori e più costosi, sento sempre addosso l'odore acidulo del latte, di quel latte che nella mia infanzia ed adolescenza vedevo ribollire in grossi recipienti poi, freddo, in bottiglie di vario taglio. Sempre quell'odore di latte dovunque.
Mio padre odorava di latte, così mia madre e la zia Tina.
Più sentivo quell'odore addosso, più desideravo non berlo.
"Bevi, bevi il latte che ti fa bene. Sei una bambina fortunata. Il latte fa crescere sani e robusti. È un alimento completo", diceva mio padre, scuotendo la grossa testa calva. Ma io, più bevevo il latte e più desideravo l'acqua, il caffè, poi il vino, i liquori, qualsiasi altra bevanda, ma non il latte.
Con il tempo avevo imparato ad odiare anche i suoi derivati: il burro e i formaggi.
Più tardi, anche nello sperma dei maschi con i quali facevo l'amore, sentivo quell'odore acidulo che non mi permetteva di godere a pieno durante un amplesso.
Il latte aveva marchiato a fuoco la prima parte della mia vita con la sua presenza asfissiante. Solo con il consumo dell'alcool ed in particolare dello champagne ero riuscita ad esorcizzare quell'odore-sapore. Per godere a pieno dei piaceri dell'amore, dovevo fare prima delle solenni bevute.
A Roldano piacevo ebbra, soprattutto nell'intimità, perché perdevo ogni inibizione.
"Se prima non bevi, sembri una suora di clausura", mi diceva ironicamente, strizzando i suoi occhi grigioverdi, mentre mi porgeva una coppa scintillante del più prezioso nettare. Ed io gli ubbidivo perché sapevo che solo così potevo sciogliermi.
Con lui ero riuscita ad essere me stessa.
Mario e Luigi, che avevo frequentato per un certo periodo, prima di conoscere Roldano, debbono avere di me un ricordo certamente sgradevole.
Appena tentavano di coinvolgermi in rapporti più intimi, venivano allontanati con ogni scusa e, se insistevano, trovavano una ferrea resistenza. Avranno pensato di aver a che fare con una ragazza di solidissimi principi morali o religiosi.
Non era così. La religione e la morale non avevano e non hanno per me molta importanza.
Non desideravo mantenermi casta fino al matrimonio in nome di un qualsivoglia principio.
Io avevo solo il terrore di quell'odore sapore, tanto che Roldano, dopo appena pochi giorni, era riuscito a piegarmi ad ogni suo volere, comprendendo quale era il mio vero problema, anche se non ne avevamo parlato mai apertamente.
Ne aveva accennato quasi per caso, una sera, con noncuranza. Così era riuscito a guarirmi del tutto. Il nostro era un rapporto di piena complicità, sia nel lavoro che nella vita privata.
"Dio, quanto mi manchi, Roldano", penso mentre mi rigiro pigramente nell'ampio letto rosso, testimone oculare di ogni mia debolezza presente e passata.
"Quanto tempo è trascorso da allora. Ma tu dove sei?
Sei forse un folletto, un uccello, un puledro o niente, meno di niente?
Senz'altro, ovunque tu sia, stai sempre meglio di me
Perché mi hai lasciato così presto e con tanto denaro? Maledetto denaro! Così utile e altrettanto difficile da amministrare.
Alla tua morte mi sono dovuta rimboccare le maniche ed interessarmi per la prima volta, sul serio, del tuo patrimonio.
A prendere il tuo posto di lavoro, per fortuna, ha provveduto tuo fratello Walter.
Io ho ereditato una parte consistente del tuo patrimonio personale, tra cui la villa di Rapallo, dove mi sono ritirata a vivere.
Come ti dicevo, caro Roldano, in un primo tempo ho tentato di occuparmi personalmente della gestione dei tuoi beni ma, alla fine, stremata e disgustata, per lo spreco d'energia, ho affidato tutto nelle mani di Vilma, la tua fidata segretaria, e di Pietro Varzi, il tuo abile commercialista".
Io Viola, già, mi chiamo Viola ed ho gli occhi neri come la notte ed odio il colore viola, quasi più del latte.
Dicevo, dunque, io Viola, a quarant'anni, ho dovuto cambiare abitudini e vita.
Poi, un giorno, è comparso Mirko, bello come un dio, e più giovane di me di venti anni.
Lo avevo conosciuto mentre ero in barca, a fare il solito giro con alcuni amici.
Era un pomeriggio dei primi di settembre, ancora caldo ed assolato.
Io mi stavo crogiolando al sole, stesa su un lettino di gomma gialla. L'aria era immota intorno e il mare senza crespe, quasi di cartapesta, color celestino, quando, udito un rumore fastidioso, ho alzato gli occhi ed ho visto avvicinarsi, insieme a quella vecchia checca di Varzi. il figlio del sole, splendente di luce e giovinezza.
Pietro Varzi, piccolo e tracagnotto, avanzava ancheggiando nei bermuda arancione. Lo spettacolo non era dei più allettanti: il ventre obeso segnava la camicia fiorata in più parti, evidenziando antiestetici rotoli di cellulite; il viso liscio e ben curato era gonfio, solcato da occhiaie profonde, in cui affondava l'azzurro degli occhi.
Mirko, invece, alto, slanciato, labbra sensuali, accentuate da occhi vellutati, color carbone, capelli fini, biondo naturale, lunghi, profilo greco, denti bianchi e spessi, torso nudo, non palestrato, ma naturalmente vigoroso, fianchi stretti nei pantaloni bianchi lunghi sino al ginocchio.
Appena mi ha sorriso, mi sono sentita avvolta in una coperta calda e familiare. Non avevo più quarant'anni, ma dieci. Ero ritornata bambina e fiduciosa, come quando mio padre, di notte, mi prendeva nelle sue braccia per rassicurarmi, dopo il risveglio da un sogno pauroso.
Da bambina avevo spesso paura.
Mia madre aveva voluto che fin da neonata avessi una mia stanza, mentre io desideravo dormire nello stesso letto dei genitori o in un lettino accanto a loro, perché temevo il buio e non volevo sentirmi sola.
Clelia, mia madre, era più giovane di mio padre di circa nove anni. Alta, slanciata, piacente, mentre mio padre Silvano era massiccio e di statura mediopiccola.
Ma era futile, crudele e non mi amava come avrebbe dovuto.
Di una famiglia poverissima aveva sposato mio padre per interesse, ritenendolo debole e permissivo. Purtroppo non era così.
Mio padre, sotto quell'apparenza bonaria, nascondeva un carattere deciso, per cui presto erano venuti ai ferri corti.
Io, nata nei primo anno di matrimonio, ero rimasta l'unica figlia ed avevo dovuto assistere ai loro frequenti litigi, sempre causati da mia madre, che, non sopportando mio padre, trovava ogni pretesto per aggredirlo verbalmente. Presa dalla sua lotta quotidiana aveva poco tempo per interessarsi a me che, fortunatamente, trovavo rifugio e conforto nella zia Tina, la sorella maggiore di mio padre, che non si era mai sposata e viveva vicino a noi.
La zia Tina, diminutivo di Annunziata, era di apparenza alquanto goffa e impacciata, ma dotata di bonarietà e di un forte senso materno. Non aveva avuto figli ed era più madre di mia madre, che pure mi aveva generato.
Col crescere venivo ad assumere le caratteristiche fisiche di mia madre, anche se i tratti del volto erano più raffinati, mentre per carattere assomigliavo a mio padre, avendone ereditato l'indole sensibile. Ciò faceva, naturalmente, imbestialire Clelia che mi avrebbe invece voluto dura e superficiale come lei.
Quando poi all'età di quindici anni, la scopersi in atteggiamento inequivocabile con Alfredo, il nostro fattorino, mi odiò del tutto, anche se io non dissi mai nulla ad alcuno dell'accaduto.
Mia madre sembrò allora accorgersi di me per la prima volta e cominciò a temermi.
Si avvide che ero cresciuta e mi stavo facendo attraente.
Iniziò a perseguitarmi, fingendo di agire per il mio bene.
Non potevo uscire con nessuno, neanche con Veronica, la mia amica del cuore.
Le gonne che portavo erano sempre troppo corte, i pantaloni e le camicette attillate, i capelli troppo lunghi.
Criticava tutto ciò che facevo e dicevo.
Fortunatamente il suo interesse per me durò poco, perché presto si infatuò morbosamente del figlio del nostro macellaio e fuggì con lui, lasciando un laconico biglietto.
Mio padre fece delle ricerche.
Dopo qualche tempo apprendemmo che era ricoverata in un ospedale in Francia, per un incidente stradale, insieme al suo amante.
Ma le sue condizioni di salute si aggravarono e, dopo una decina di giorni, spirò tra le braccia di mio padre, che, nella sua bontà, l'aveva perdonata.
Io no.
Per questo non volli neanche partecipare al suo funerale, chiudendomi in uno strano mutismo e apatia.
Col tempo, però, iniziai a sentire la sua mancanza e mi accorsi quanto fosse importante per me, anche nella sua inadempienza materna.
Il rapporto tra madre e figlia è spesso conflittuale. Ma, quando la prima viene a mancare, qualcosa di fisico si distacca dal corpo della figlia, recidendo un legame ancestrale, fatto di carne, sangue e sostanza organica.
Già dopo qualche mese dalla morte di Clelia io mi sentivo monca di lei e la invocavo mio malgrado.
La sognavo di notte, mentre mi guardava torva e minacciosa.
Questo per cinque o sei mesi.
Poi la sua immagine iniziò a scolorirsi, fino a sparire del tutto.
Col tempo mi dimenticai di lei, attaccandomi sempre più a mio padre, che aveva riversato su di me tutto il suo affetto e le più belle attenzioni.
Sono passati molti anni, da quando, Clelia, ti ho rivista, in sogno.
Eri serena, quasi sorridente.
Poi, ieri, sei apparsa anche al mio risveglio.
Stavo riaprendo gli occhi, quando la tua immagine mi è scivolata tra le ciglia dischiuse e ti ho rivisto giovane e bella, come nei primi anni della mia fanciullezza.
Eri dolce e ammiccante, come non ti avevo mai conosciuto.
Non eri un sogno, perché allungando le mie mani invecchiate, ho toccato le tue che erano lisce e bianche. E per la prima volta ti ho sentito madre, dea fonte di vita, e mi sono, mio malgrado, riconciliata con te.
Ti ho ritrovato ed avuto per la prima volta, Clelia, proprio quando ero più disperata.
Mirko mi ha lasciato per sempre.
È andato via, di mattina presto, mentre ero ancora addormentata, portando con sé gli abiti e i gioielli che gli avevo regalato in tutti questi anni.
Non ha lasciato neanche la carta di credito che gli avevo intestato.
Dicono che adesso viva con Angelo, un giovane ballerino.
Sono passati due mesi ormai ed io ancora non mi rassegno.
Non ho bloccato la carta, per non recidere l'ultimo legame che ho con lui.
Spenda pure tutti i miei soldi. Non m'interessa. Io non ne ho più bisogno.
Da una settimana ho licenziato i domestici, liquidandoli. Ora sono a posto.
Non devo più nulla ad alcuno.
Da tre giorni, vivo chiusa a chiave nella mia stanza, dove ho staccato anche il telefono.
Non mi muovo dal letto, perché solo da qui posso vedere Clelia e sentire le sue mani che mi accarezzano.
Mater, mater dulcissima, mater amabilis, mater admirabilis, mater boni Consilii, mater, mater, mater...

Gemma Forti