Poeta lirico, critico letterario e d'arte, filosofo, Marino Piazzolla ci ha lasciato anche un'opera del tutto singolare che manifesta la sua profonda ironia nei confronti della vita: I detti immemorabili di R. M. Ratti. Quest'opera, uscita dapprima in due volumi (rispettivamente nel 1965 e 1966) e in una seconda edizione nel 1979, occupa un posto del tutto particolare nel panorama della produzione di Piazzolla e testimonia di quella sensibilità che caratterizzò sempre l'approccio non solo alla letteratura ma alla vita. Ed è il segno di un animo inquieto e indagatore dell'uomo in quanto soggetto antropologico e speculativo.

Senza accodarsi al materialismo di moda, anzi contrastandone gli effetti massificanti, Piazzolla dà voce, specie in questi Detti, all'homo magicus (in sintonia col suo stesso prefatore e amico provenzale René Méjan), all'homo ludens di Huizinga (1938), infine all'homo edens, che l'antropologia contemporanea ha salutarmente recuperato dal fondo indo-europeo della nostra cultura mediterranea.

Il tecnicismo espressivo del letterato di razza, dell'artista scapigliato e filosofo vagabondo rende asciutto ed essenziale il linguaggio di questi Detti, che innucleano, come gli apoftegmi degli antichi, similitudini magiche di animismo arboreo, comuni all'immaginario primitivo, alla mitologia classica e riprese da Dante; epperò le riproducono attualizzandole, per via di una dinamica traspositiva, sotto forma di arguzia o facezia.

 

"Dalla pur limitata rilettura che ne ho potuto dare ci accorgiamo che i Detti dovettero costituire uno degli spazi più consoni alla creatività impegnata di Piazzolla, filosofica e poetica insieme.

I contenuti acquistano rilievo per lo spirito trasgressivo con cui sono espressi. Episodi di vita reale capovolti per logos e figura rispetto al disegno e senso comune; messaggi irrazionali, sogni e desideri respinti, trasformazioni da prestigiatore di luna park (uomo-ombra, uomo-cane, uomo-scimmia), inseguite giocando, costituiscono vari riquadri, volutamente sconnessi fra loro, di una rappresentazione carnevalesca di mondo alla rovescia, visto da un intellettuale solo, sconfitto in vita, ma sino alla fine strenuo combattente con l'arma dell'ironia, che è specifico appannaggio della tradizione dei Detti.

Non è casuale l'abito socratico, o meglio pseudosocratico, assunto attraverso Senofonte, da Ottonieri, perché la nascita dell'ironia si fa risalire a Socrate, il filosofo della chiarezza e del convincimento, tanto che l'esistenzialista danese Sören Kierkegaard e il bergsoniano russo Wladimir Jankélévitch, trattando dell'ironia, hanno finito per scrivere quasi esclusivamente di Socrate, del suo concetto d'ironia e dei suoi modi di farne uso maieutico.

Senza procedere a quella "sorta di ostetricia empirica", attribuita al filosofo di Atene, Ratti con i suoi aforismi, ancora più apertamente di Ottonieri, ironizza su se stesso, sugli altri, sulle cose, su tutto, facendo vacillare le tradizionali certezze.

L'ironia è forse il grado più alto di consapevolezza critica del proprio e altrui vivere e pensare."

Giovanni Battista Bronzini

da "Fermenti", n. 219