Arcani Archetipi

di Paolo Guzzi

Introduzione di Donato Di Stasi

I fantasmi di dentro, ovvero la boîte-à-musique

Se precipitassimo sonetti sul selciato di un cortile dal sesto piano, se schiacciassimo poesie sotto potenti presse industriali, se saltassimo a piedi giunti su vecchi libri tarlati, avremmo ucciso la scrittura creativa e antagonista? Presumo di no, o meglio lo auspico in questa nostra civiltà morbosa, sessuofoba, pornografa, squilibrata, macabra, patologica; dello stesso avviso mi pare Paolo Guzzi, il quale crede ancora possibile esprimere emozioni e sentimenti umani attraverso corrispondenti estetici e equivalenti in bellezza, infatti con raffinatezza, senza prendersi eccessivamente sul serio, sciorina sonorità sature, distorte, corrotte, sardoniche, antinaturalistiche e amarissime. Ci troviamo di fronte a una personalità forte, in grado di imprimere il suo marchio ai testi: si tratta di un portavoce fittizio e fraterno, costretto a sdrucciolare sui detriti opachi della malinconia, giunto com'è a quel segmento dell'esistenza foriero di bilanci e di disillusi sguardi volti al passato. Nel suo involucro poetante, pur deformate e distanziate, trascina vicende personali (i fantasmi del padre morto troppo presto e della madre che a novantacinque anni non lo riconosceva più) e accadimenti sociali (le invettive contro i grassatori che turlupinano, sottraggono, arricchiscono a spese nostre), aspirazioni e sconfitte, a volte sgretolandosi in una sorda tristezza, in altre circostanze ergendo un muro di ostentata ironia con risvolti addirittura caricaturali. L'irrisione e lo sberleffo (si vedano le due odicine Al mio ultimo spermatozoo, Al mio pen-ultimo spermatozoo II) servono a nient'altro che a lenire il dolore comune di essere qui, di esserci in questo falsissimo paese dei balocchi, in questo intristito zoo televisivo-cinematografico ("Matrix reloaded, non è finita,/ancora per molto precipiteranno figure di plastica/da grattacieli abissali, e la Bellucci, oh Monica/li sta guardare con l'indifferenza viterbese/della bellezza", Matrix).
Forse il senso della proposta di Paolo Guzzi risiede in questo farci uscire dalla letargia, dall'anestesia di massa, e invitarci a godere, anche a soffrire se capita: non solo dobbiamo essere vivi, ma sentirci vivi e sentire a un tempo la vitalità fluire negli altri, che non corrispondono a cervelli messi in frigidaire, ma a uomini che fremono, si appassionano, conoscono impeti e abbattimenti. Uscire dalla letargia occidentale significa evitare che il viaggio si risolva in una mera rievocazione dei fantasmi del passato, che pure sono necessari per la loro presenza apotropaica e salvifica.
Nel paesaggio sonoro globale, cantato nelle sue contraddizioni, secondo un profilo non referenziale, ma polisemico, Paolo Guzzi indica tutti i rischi derivanti dal far parte di una società impersonale, nella quale nessuno sembra sapere dove stia andando, né sembra interessato a saperlo ("...Ritorni sui luoghi a scegliere/il luogo dove ritornare ogni volta, da cui partire e ripartire/e ritornare: si vede meno del resto, ma quando un luogo ti è dentro, allora ti resta per/sempre, immobile lo vivi, la vita e ti guardi, sollevato da terra, mentre vivi la vita, la/vita, la tua, quella vera e quella degli altri con te", La prima-l'ultima volta a Marrakesh).
Arcani Archetipi è un'opera aperta e combinatoria: da un lato manifesta contrarietà al Sistema Globale che tutto spiega e deduce, che perviene alla compiutezza definitiva, assegnando a ciascun particolare un rigido posto e un asseverato significato nella Totalità; dall'altro si presenta come un affastellamento di scritture onnivore, che non tralasciano nessun timbro, nessun registro, nessuno stile, nessuna prosodia, infatti contemplano le sferzate della poesia civile e gli abbandoni, gli amori, i viaggi, la quête dell'inclinazione sentimentale.
Grazie a un soggettivismo a frizione, monodico e dissonante, Paolo Guzzi può metterci sulle tracce della sua e dell'altrui odierna infelicità, non facendo differenza fra i registri espressivi, mai allestendo gerarchie di status linguistico, non lesinando appoggi metrici, sapiente musicalità interna, forme chiuse e aperte, innovative e tradizionali. Per questo vorrei parlare di uno sperimentalismo placato, di una scrittura acquietata nei suoi processi contaminativi, nei suoi pastiches: non siamo di fronte a un veteroavanguardista, Gruppo '63-dipendente, al contrario ci troviamo al cospetto di un poeta maturo, sicuro delle sue scelte linguistiche, sintattiche, lessicali, semantiche, con il traguardo di giungere al cuore delle cose, senza dover combinare gli oggetti che si trovano in commercio (anche nei pessimi libri di poesia), ma altre conoscenze, altre relazioni, un empirismo degno di questo nome, capace di porre al centro l'esperienza umana tra i due limiti ineluttabili e ineliminabili: la perfezione e il nulla ("È meglio la realtà che c'inventiamo, il resto ci sfugge dalle dita, si sfarina come/polvere di cinnamomo", ha prima-I'ultima volta a Marrakesh). Arcani Archetipi si configura come un'opera tripartita, con la sezione eponima e altre due, Esercitazioni extravaganti e Odradek, nelle quali si aggirano variegati viaggiatori, da Ulisse a Achab, da Gauguin a Jacques Brel, passando per i ciclo-eroi Bartali e Coppi, in un caleidoscopio di storie che si dispiegano da Parigi alla Polinesia nell'inesausta ricerca di un senso, di un cuneo da infiltrare nella superficie del reale per scardinarlo, lasciandone tracimare quanta più verità possibile sullo stato dell'esistenza di ciascuno di noi. Le tre sezioni corrispondono grosso modo a ciò che è indispensabile riuscire a sentire (sentienda), a ciò che è necessario conservare nella memoria (memoranda), a ciò su cui occorre instancabilmente riflettere (cogitando); lo stesso uso dei lessemi, sempre sguinci e stranianti, abbambolato, abbaiamento, lezzume, barchesse, meandrici, conferma la volontà di svellere la banalità quotidiana, di superare la pretesa immutabile eternità della Società dei Consumi: qui i fenomeni balenano e acquisiscono differenti significati, si realizzano segni e movimenti che vanno dritti al noetéon, come direbbero i greci, all'essenza ("Ala mortale sul mondo/tra libagioni e coiti,/esplosioni,/come fuochi d'artificio/brandelli di carne:il corpo si fa bomba,/non mente adatta per pensare/il pensiero/è soffocato/per la disperazione:/cupio dissolvi/difficoltà troppo alta di vita." Pericolo!). Nella sua ricerca di nuovi archetipi, di un rinnovato immaginario collettivo, Arcani Archetipi trova il suo fondamento: ciò che l'individuo è con le sue ansie e angosce, col suo sentimento della vita e della morte, con le sue difficoltà di progettare il futuro oppure di perdersi nel presente, di dissolversi in una realtà che spersonalizza e neutralizza, per questo la poesia non può essere che espressione del singolo nel singolo suo esistere, mentre la scrittura poetica si rivela come la categoria attraverso la quale deve passare ciò che si suole designare come collettività, epoca, storia, umanità. La coscienza infelice, isolata e staccata da tutto, si rivolge al processo dialettico della composizione per evitare che il fuori irrompa nel vissuto con l'estrema violenza che le è propria, dilacerando fin nell'intimo e imponendo, momento per momento, il rischio della scelta: la poesia viene assunta da Paolo Guzzi come un atto di libertà, di ribellione, di separazione dai luoghi comuni.
Tanta amarezza sollecita il suo contrario, l'ironia, che è un guardare al mondo come a un assurdo gioco, a uno spettacolo da divorare con gli occhi e con la gola:"Romaexamor per noi/ogni ex angolo una ex, come in ogni ex porto/una ex emozione, un ex sguardo, un ex insuccesso/un ex successo, un ex ricordo, exit ormai", Komaexamor). Nella crisi delle convenzioni lirico-emotive e dei simboli tradizionali della poesia, Arcani Archetipi procede per una sua strada, originale e personale, verso una rigorosa reductio ad rationem, per questo l'Autore segue e realizza nella scrittura i temi irrealizzati della vita, secondo un atteggiamento storico, dolorosamente attento alla contemporaneità, aspramente malinconico verso le sconfitte di ognuno di noi ("Il suo nemico è il bambino, nato da lei, mostruosità/che disturba, suo Moby Dick privato/personale./Nessuno saprà cosa le giovani madri/dicono ai figli, quando li lavano nell'acqua calda", Achab).
Con leggere punte di manierismo, nel caso specifico della polisemia e della polifonicità compositiva, Paolo Guzzi rimane sempre concentrato sul "che cosa" del linguaggio, sui suoi procedimenti e sulle sue dialettizzazioni, rifiutando decisamente l'oggettività della lingua commerciale corrente, avvertita come minaccia incombente per la salvaguardia dell'umanesimo, la nostra eredità filogenetico-culturale.
I testi parlano chiaro, nel senso di individuare e verificare non solo i moti interiori (ricordi di passati amori e dimenticate amicizie), ma soprattutto gli accadimenti esteriori, politici, che condizionano non poco la coscienza individuale e il rapporto con la socialità; del resto chi voglia evitare l'acritica adesione alle rovinose cadute ideologiche attuali, non può che togliersi il cappello e riuscire in una giullarata demistificante, in una pasquinata avversa ai prepotenti di turno ("Sfasciareareare più facile che rarefare, una/risataataaaaah! Li seppellisca/E se non bastabastabasta! Si stabilisca il/principiopiopiopio!/Cisici si ribellibellibelli questavoltaolta svoltasvolta/anche violenta/Nonlentanonlenta", Costituzioneeeee !).
Avendo chiamato a testimoni Giacomo Leopardi (e la sua nuit.xlaire et sans venti, il concerto per tromba di Vivaldi, i fantasmi parigini di Giovanni Macchia, il battello ebbro/lo stivale ubriaco di Rimbaud, un aforisma di Goethe, i suoi stessi proteiformi piaceri (un cinema vuoto di pomeriggio, una stazione del metrò, una giornata plumbea), in modo decisivo, starei per dire etico, Paolo Guzzi si assicura contro il pericolo di rivolgersi a un pubblico anonimo, a una folla senza identità: il suo discorso poetico è rivolto a una comunità che la presente prefazione si è incaricata di discernere in qualche modo. Così fra tanti indegni abbaiamenti non ci si perda di forza, piuttosto caniamo, anzi canamus. Ad maiora.

Donato Di Stasi