Il sanscrito del corpo

di Tiziana Colusso

Introduzione di Giulia Niccolai

Questa nuova raccolta di poesie di Tiziana Colusso risulta composta di tre sezioni: Il sanscrito del corpo che dà il titolo al volume e comprende diciotto testi scritti tra l'ottobre del 2005 e il dicembre del 2006, Corporationes (otto poesie), e Alfabeti naturali(cinque), entrambi composti precedentemente, e cioè tra il 2004 e il 2005.
Così Tiziana ha voluto iniziare dalla "fine", dalle sue ultime prove, per poi risalire nel tempo, fornendoci tutti i tasselli di un suo work in progress che ci riporta alla precedente raccolta: Italiano per straniati (Fabio D'Ambrosio Editore, Milano 2004). Da Italiano per straniati ha voluto estrapolare un testo, le braccia del Bodhisattva (datato Parigi 2001), da lei considerato come germe aurorale dell'argomento "corpo + riflessione spirituale" di cui è intessuto questo volume. Al contempo questa operazione tende anche a dimostrare come per l'autrice non siano tanto importanti le date, quanto piuttosto la convinzione della compresenza in ogni momento di tutti gli stati d'animo e di tutti i precedenti momenti della nostra vita, di cui ci ritroviamo sempre a essere la somma.
Come la stessa autrice vuole farci sapere, "sanscrito del corpo" sono le parole di chiusura di un bellissimo poemetto di Odissea Elitis, riportato in epigrafe alla prima sezione di questo volume. Lo leggiamo come augurio a tutti (e a tutte) noi, di poter vivere "iniziati" in amicizia, con consapevolezza e senza masochismi o sadismi. Solo in quel particolare stato di grazia il corpo comincerà a comunicare e noi riusciremo a decifrarne il linguaggio, quel suo "sanscrito" appunto, che parlerà alla nostra mente, fornendole preziose nozioni psicologiche e rivelatrici di noi stessi, desunte dalla memoria cellulare di carne, organi e ossa. Quando "cominceremo a vivere iniziati al sanscrito del corpo", diverremo anche, in parte, medici di noi stessi, comprendendo blocchi e paure, cause ed effetti di certe nostre malattie e intolleranze. In altre parole, "vivere iniziati al sanscrito del corpo" significa assumersi una maggiore responsabilità, avere certe intuizioni ed introspezioni che ci porteranno inevitabilmente a credere nella dura legge del karma e a comportarci di conseguenza.
Mi rendo conto di avere già cominciato a usare termini di una filosofia orientale che in realtà pratichiamo entrambe Tiziana e io, tramite due diverse scuole di Buddismo, ma l'ho fatto perché questi termini sono ormai di dominio comune e comprensibili a tutti. Se ciò è avvenuto, credo sia perché essi sono ormai quasi indispensabili per poter sopravvivere in questo nostro pianeta così cinico, globale e alla deriva. Globalmente cinico e alla deriva?
Ma, per entrare nel vivo dell'argomento, leggendo questi testi si potrà notare una certa differenza tra le poesie della prima sezione e quelle delle due sezioni successive (ma scritte precedentemente nel tempo). In quelle più datate è molto forte il tono dell'invettiva e della rabbia e un ritmo che tende a rafforzare l'inflessibilità di tali emozioni. Si tratta anche di testi estremamente espliciti e quasi narrativi allo scopo di spiegare al lettore le ragioni di tale accanimento e furore. In simili dichiarazioni, a mio avviso, una chiarezza da manifesto toglie qualcosa a quell'aspetto più misterioso, sottinteso e così intrigante della poesia poesia. Ma certo, questa è una mia personale opinione che va interpretata come tale. Non ho dubbi sul fatto che molte persone potrebbero preferire proprio quei testi che io non prediligo. Infatti, ad esempio, l'ottimo saggio di Gaetano delli Santi su Italiano per straniati dal titolo La scrittura lapidaria, inizia con queste parole: "Il comune sentimento dell'accettazione passiva e rassegnata, viene (nei versi di Tiziana Colusso) scabrosamente e provocatoriamente leso". Potrei allora aggiungere che la differenza (tra delli Santi e me), sta nel fatto che, secondo il mio punto di vista, l' "accettazione" (in una sua connotazione spirituale), non ha niente di passivo o rassegnato, ma è solo constatazione (che certe cose non possono essere mutate) e dunque una sorta di dimostrazione di saggezza. In altre parole, chi crede nella legge del karma (identica alla legge del contrappasso), non può non accettare ciò che gli succede, perché è lui stesso che, in passato, ha messo le basi delle cause di ciò che ora subisce come effetto.
Nei diciotto poemetti del Sanscrito si respira un'intensa positività, un'aria più serena e costruttiva, come in vacuum mandala, ad esempio, dove l'aspirazione a uno spazio interiore vasto e privo di ingombri equivale a un desiderio di "libertà". Una citazione leggermente trasformata da A Zacinto del Foscolo ci riporta a un tempo anch'esso vasto e lontano, per poi tornare a posarsi sull'autrice bambina, in villeggiatura, quella notte del 21 luglio 1969 quando i primi astronauti toccarono il suolo lunare. Si viene così a creare un salvifico senso di continuità spazio-temporale che - ci pare - nessun accadimento esterno potrà mai più annullare nello spirito dell'autrice. Ma a questa nuova e inedita sicurezza l'autrice ci arriva dopo la sofferenza di una grave operazione che fa affiorare in lei tutta una serie di pensieri ed esperienze "corporee" sparse negli anni.
Quanto al secondo importante poemetto della sezione, kalachakra blues, vi si avverte nel sottofondo il desiderio di un'ideologia nella quale poter credere, e ci si trova ritmicamente coinvolti in lunghe catalogazioni che riescono a trasmetterci una straordinaria energia, una vera e propria esaltazione mentale. Un esperto gioco di assonanze interne accelera il testo con grande padronanza da parte dell'autrice (quando lo desidera), così come sa comunicarci anche un suo quasi febbrile panteismo che vorrebbe tutto comprendere e abbracciare: "... qualcosa di noi rimane seduto lì,/ sulla soglia di ogni direzione,...", ma anche " fado/ fari nel buio/ finzioni/ frenesie -/ un'altra stagione del cuore/ bare discrete del tempo/ tra le valigie pronte/ continuamente".
Se è vero che per essere artisti validi bisogna essere alchimisti, direi che Tiziana Colusso ce ne dà la prova nel poemetto Il sanscrito del corpo dove ritmo e parole sembrano piegarsi alla sua volontà in modo tale da darci la sensazione del brulichio di atomi, cellule, DNA, tutto ciò che di infinitamente piccolo e informe costituisce quel brodo primordiale dal quale ogni vita è derivata e ha preso forma.
O quell'insieme di materia infinitesimale di cui siamo composti: "ci sono città nel corpo/ più numerose dei corpi nelle città/ e attività febbrili nel buio di anse e cavità/ che presiedono a ciò che vive/ finché vive...".
In carne senza destino, dedicata a Manuelina che non c'è più, commuovono questi versi sul disagio e la sofferenza (per certuni) di essere bambini, mentre secondo il "comune buonsenso" quella dovrebbe essere l'età più felice e spensierata della vita: "e l'horror inconsapevole di noi bambine/ che sfogavamo l'infanzia cavalcando/ nei corridoi una sedia a rotelle...". Ed è appunto 1' "inconsapevolezza", il non possedere validi punti di riferimento, per mancanza di esperienza - data la giovanissima età - ciò che più fa soffrire. Ma forse il testo più significante ed essenziale per comprendere la poesia dell'autrice, la sua anima"antica ' e la sua ricerca di uno spazio "altro" (e di una non-dualità tra il sé e l'altro-da-sé), è quel out of body experience, titolo scritto in inglese perché suona meglio che in italiano, o per pudore, non volendo essere troppo esplicita e diretta? Si tratta comunque - e molto chiaramente - di aver sperimentato la separazione della mente dal corpo dopo un incidente stradale e di aver così capito, senza ombra di dubbio, che un "altrove" c'è, c'è una vita (della mente o dell'anima) che continua dopo la morte del corpo: "Intorno al corpo steso,/ incastrato nelle lamiere della bici nera,/ passanti, poliziotti, barellieri d'ambulanza/ come formiche su un miele color vino:/ intanto, più in alto,/ qualcosa senza nome né peso/ abbracciava equanime/ l'orizzonte di una periferia romana,/ un giardino stento/ con i resti di un circo, un benzinaio,/ bevendo con ogni poro il sole/ smisurato e magnifico di novembre/ che sembrava già attirare/ all'altrove". Una tale esperienza non può non segnare profondamente chi l'ha vissuta, trasformandosi in, una sorta di morte-e-rinascita che porterà a vedere il mondo in modo ben diverso da come lo si considerava prima.
Dimostrazione di ciò potrebbe esserlo il poemetto successivo, quel corpo libero che è già una riflessiva e dunque non impulsiva disquisizione sul vero senso di libertà (che non è fuga o evasione), bensì uno "scioglimento di nodi", blocchi e afflizioni che abbiamo in noi, rancori e amarezze che ci avvelenano l'esistenza e non sfiorano nemmeno coloro che - a nostro avviso - ci danneggiano.
Prima di completare questo mio breve excursus tra i nuovi versi di Tiziana Colusso, vorrei ricordare boarding now (col suo omaggio a Daniele Del Giudice), nel quale l'autrice dimostra ancora una volta la sua abilità nel trasfigurare il linguaggio, imponendogli un'accelerazione che recepiamo come gioia ed eccitazione dell'andare, del volare e "di un largo movimento/ come d'orchestra", che in definitiva corrisponde a un grande amore per la vita.

Giulia Niccolai