La carrozza di Cicikov

di Giuseppe Vigilante

Prefazione di Elio Pecora

«... È il mio dolore / un sibilo costante / tra pietre bagnate / e alte mura: / non attendo risposte / non attendo conforto / ... Vorrei percorrere fino in fondo / quest'unica strada / ... Lasciatemi solo / in questa notte così dolce. / Lasciatemi solo: /forse troverò la risposta. / È questo stesso cieco vagare / nella notte / un segno incompreso / della tua parola? / E negli stracci e nella menzogna / di cui viviamo / v'è forse l'orma / d'un destino eterno ?...». Sono versi tratti da "Invocazione notturna" e bastano a provare da quale necessità e urgenza nasce quest'ultima raccolta di Giuseppe Vigilante.
Fra oratorio e preghiera, fra grido e confidenza, qui la voce si leva da una condizione di subbugli e di pene, in un tempo di smarrimenti e di sconfitte. Qui l'uomo della modernità, in un più di consapevolezza, propende alla negazione di sé, pensa l'amore "che ha un sorriso malato", non si tace lo sconforto e l'orrore. E se il presente lo mortifica e delude, il passato gli si rivela con il suo carico di sbagli e di abbagli. Così Eliogabalo vaga nella suburra e osserva un'umanità in sfacelo. Così il Cicikov gogoliano arriva a denunciare e a irridere i propri miserabili traffici. E la civiltà azteca preconizza le sue alte rovine, le profezie bibliche approntano il "freddo silenzio della colpa", il Cristo si ripresenta nei panni sporchi e sudati di un uomo che gioca a dadi in una taverna e tace indifferente alle richieste di una nuova salute. Insomma tutto dell'esistenza e dell'essere parrebbe franare e nagarsi, e l'orfanezza e la mancanza farsi uniche condizioni dell'umano, e ogni progetto chiudersi nella definitiva condanna della ferocia e della stupidità dell'uomo.
Pure la fatica del vivere non arriva ad annientare l'allegria-energia del ricevere e del dare. Resta la certezza di quanto l'amore degli altri e per gli altri possa confortare e giustificare le nostre giornate. Per ciò la voce, spesso vibrante fino all'ebbrezza, nemmeno guardinga dell'eccessivo e del patetico, si lascia a musiche ora fluenti, ora spezzate, a versi che s'inerpicano fino al divino e precipitano fino allo sdegno e alla paura. Allora Sibelius si ritrova nelle sue musiche spente e nei geli notturni accende luci di grazia. Allora Eliogabalo si rifugia in un "mondo appartato, senza, macchia".
Dunque, partendo dalla perdita e dall'assenza, attraverso il grido e la lacerazione, si perviene alla grazia della parola: che dice lo squallore e la delusione e, dicendo, tocca la pietà di sé e dell'altro. Una pietà affaticante, forse piuttosto una mescolanza di passione e di compassione: che porta a farsi compagnia nel mondo e a non dimenticare che c'è un cammino da compiere e questo cammino è percorri-bile solo a chi si spoglia delle furie e dei rancori, delle pretese e dei possessi. In "Preghiera laica del mattino" leggiamo: «... Se la remota innocenza / giace impossibile, / chiedo almeno il dono / di un cuore leggero ...».
È notevole la leggerezza che Giuseppe Vigilante raggiunge nei vari e corposi componimenti di questo libro. Nonostante una notevole dominanza dell'io, anche dove l'altro e gli altri sono mossi e si muovono. Nonostante la dovizia dai toni, che passano dal sussurro all'accusa, dal sarcasmo alla sentenza. E leggera la lingua, che unisce forma a sostanza, esattezza a onestà, e trattiene chi legge e lo rende partecipe e lo convince e commuove. Sono leggeri gli esiti che - fin nella tragedia conclusa delle storie passate e in quella insopportabile dei nostri giorni - portano il lettore a parlarsi dentro, per una comprensione più vasta, per una religiosità difficile e colma che significa un legame profondo con l'esistenza e un sicuro tramite con il sacro. I versi de "Il Paradiso", che chiudono la raccolta, sono tutti innestati di leggerezza se possono ardire così tanto e allo stesso tempo non ignorare l'amaro e il triste delle giornate umane. Con alcuni di essi vale qui concludere: «... Saziatevi, Signore e Signori! / Non sapete quando la festa è cominciata. / Ma non finirà tanto presto. / Avete creduto, avete sfidato / la tempesta e la tormenta. / Ma il Paradiso è qui: / è una tavola imbandita, / è una navata illuminata, / è un cero che sfrigola, / è un organo che non si vede, / è una vetrata dove batte la pioggia, / è un angelo di cartapesta / che sembra ridere d'imbarazzo / e che non vuol volare. / Se l'organo suona, Signore, / i tuoi figli non hanno più sete. / Se le corolle s'aprono, Maria, / tutte le madri sono vergini. / Se il cero arde e l'angelo sorride, / Padre, è segno che il tesoro è stato donato, / che la nave non partirà più per l'orizzonte desolato, / che la miniera è chiusa / e il baldacchino è crollato ...». Solo un'indomabile fiducia nella vita può decifrare e rivelare tanto sconforto e tanta attesa. Sono i pesanti nutrimenti della Terra a rendere lieve e aerea l'anima quando arriva a disciogliersi nelle parole della poesia.

Elio Pecora