Poeti da combattimento letterati d'avanguardia di Milva Maria Cappellini

da "Caffè Michelangelo", Anno XI, maggio-agosto 2006

L’avanguardia, si potrebbe dire, o è permanente o non è. L’avanguardia non è uno stato di cose che debba essere instaurato, bensì un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Si è tentati di ricorrere a formule generose, che forse qualcuno ancora ricorda, leggendo il saggio La scrittura tra realismo e allegoria (2005: da qui le citazioni, se non diversamente indicato) che conclude il volume Superrealisticallegoricamente di Nadia Cavalera: né sembri noncuranza del testo di poesia avviare questa riflessione citando il testo di poetica, dato il legame qui strettissimo tra esperienza di vita, speculazione metapoetica e pratica di poesia. Dunque, «Impegno pieno per un’Avanguardia da riattualizzare, al di là di stereotipate concezioni, portatrice di un progetto culturale diverso, opposto, antagonista, aliena da ogni compromesso con logiche di potere». Un pensiero, come si vede, forte, fortissimo, irriconciliato; un’idea della verità perentoria per quanto non dogmatica - «(: nessuna verità rivelata: solo una credenza soggettiva conclamata»: Io sono Io - e, soprattutto, una «scrittura solitaria scritta schietta contro chi pote pagante pagato…» (Scrittura). La creatività è di per sé rivoluzionaria, il suo linguaggio provoca e destabilizza: «W lo smantellamento dei debiti perversi proterzi W la vanificazione del brandingaggio selvaggio la riappropriazione di ogni creativo lignaggio linguaggio zonaline pipeline per un mondo equo sano rondò villaggio» (W l’economia bonificata). Ogni pacificazione va rifiutata, tanto che a proposito del precedente Amsirutuf: enimma Nadia Cavalera scrive: «era il mio no ad una parola fascinosa ma non aderente alla realtà, che la copriva anzi e mistificava. Ne immobilizzava la crescita». Il linguaggio possiede un preciso potere performativo («essere prescrittiva / ma anche formativa / e stoica comparata»: da Sospensioni, 1980) e una qualità immediatamente politica; la poesia è – dev’essere – il  contravveleno alla mistificazione universale e alla chimera regressiva: «La mia voce un tempo flautata fatata fata di sogni heidi picchiettata con questo morso in bocca d’un mondo allocco è baccalà fisso che stocca ogni corso ricorso torsolo senza rimborso ed io muta m’abbiocco come rotto balocco» (La mia voce). L’impegno poetico nasce dallo stesso luogo che genera l’impegno etico e civile: «Il nostro non è il migliore dei mondi possibili ed è questa consapevolezza la causa dell’infelicità (: potevamo essere più fortunati!)» (Superrealisticallegoricaforismando). Nella voce di Nadia Cavalera risuona la nota ferma di un neoilluminismo che ha attraversato Marcuse: il mondo migliore, sognato, «non solo non c’era da nessuna parte, nemmeno in qualche dimensione parallela […], ma senza un’Avanguardia ferrata, convinta e compatta, sempre più numerosa, non c’era neppure la possibilità di realizzarlo. E rimaneva orribile nella sua ingiustizia, nella illogicità imperante, nell’assurdità stomachevole» (La scrittura tra realismo e allegoria). La conservazione dei valori minacciati appare un altissimo compito consegnato anche alla parola poetica: «e basta co’ sta boiata botta nata referendata della Costituzione antiquata quando è vergine d’usura conclamata: da longtemps in innumeri fleurs decretizio violentata (: urge il lifting non lo scempio in trapping: il rinnovo novello empio zapping)» (Supplemento solidale, in parte). La scrittura non può che essere, in questa prospettiva, profondamente storica, tesa tra commento critico e cura programmatica: già Amsirutuf: enimma era, scrive l’autrice, «il mio sì per una parola da reinventare, pescando nel passato […] per trovare le energie necessarie a fondare il futuro». Tutela del passato e progetto per il futuro sono coordinate naturali dell’umano, in quanto corrispondono perfettamente alle due «facoltà principali del cervello: registrare e progettare» (Superrealisticallegoricaforismando). Neanche l’estetica, questo è certo, può eludere il contesto: «La bellezza è produzione di scarti – La vera arte è esaltazione degli scarti, del difforme alla ricerca di una forma, da superare: il resto è, più o meno capace, imitazione» (Superrealisticallegoricaforismando); il che rimanda all’ostranenie dei formalisti, ma anche alla contestazione intransigente dell’utilitarismo capitalistico. E’ conclamato il «Rifiuto del neotradizionalismo e del postmodernismo in quanto, seppure con motivazioni diverse (l’uno con la sua fede cieca nel passato, da rilanciare tout court, l’altro con la piena accettazione del presente) rinunciano alla militanza culturale fortemente critica ed oppositiva, l’unica possibile oggi per chi non voglia essere compreso nel progetto economico politico del neocapitalismo globalizzante».
L’orizzonte ideologico ed estetico di questa esperienza poetica è, anche esplicitamente, benjaminiano: bisogna ricordare - la stessa Cavalera ci esorta - il trionfo dell’allegoria che espone la lacerazione insanabile, la perdita di senso, il decadimento dell’umano e della storia, ma bisogna anche ripensare l’allegoria come dialettica eccentrica tra quanto è raffigurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che l’hanno prodotta e i suoi significati autonomi. E si pensa ancora a Benjamin incontrando la malinconia che l’ottimismo della volontà non vince: «ma il mondo per me permane triste» (La scrittura tra realismo e allegoria).
Simile densità concettuale sa trovare espressione concentrata nelle forme brevi dell’aforisma («Non ci sono ragioni del cuore che il cervello non conosca. […] La scrittura, quando è autentica, costituisce il superbo scalpello del pensiero»: Superrealisticallegoricaforismando) e dell’haiku: «Il cambiamento /  E’ il fuoco che spinge / Il mio tempo» (2 Haiku - per Franca Battista). Talvolta il ritmo esatto dell’haiku slitta in uno straniamento da filastrocca, mai disimpegnata («grullo cocuzzolo / corridoio sfruscio / malanimo gruzzolo»: 6 Haiku) ma incline semmai a certe forme di non-sense (in Salentudine, del 2004, la veste privilegiata era il limerick). In tutti i casi, però, il non-sense finisce per essere in realtà un iper-sense che stravolge il contesto, abbatte le sicurezze convenzionali e consolidate, addita altri sensi e altre possibilità: è questo, in fondo, il compito «di uno sperimentalismo ad ampio raggio, non gratuito, ma di tendenza. Uno sperimentalismo che sia momento di rottura e che, col fine precipuo di rinnovare il rapporto con le cose, coinvolga e stravolga i generi negli elementi espressivi e contenutistici, usi tutte le tecniche e i procedimenti possibili». E’ poi mansione della migliore avanguardia forzare i residui confini tra generi, codici, linguaggi (si veda I prestanomi: uomini senza; si consideri lo struggente acrostico Adriana, del 1972; e si tenga presente la definizione di Amsirutuf: enimma come «libro totale, alla Roland Barthes»), come lo è tentare e ritentare nuove relazioni tra significante e significato: il conio lessicale per ibridazione, germinazione e composizione; la riduzione paratattica della sintassi; la parsimonia interpuntiva; le catene di allitterazioni e paronomasie; le rime infittite in sequela e così via. In particolare, l’estrema prossimità reciproca delle figure di suono crea qui un tessuto sovrabbondante e straniante, e segnala l’accanita manipolazione del linguaggio, volta a indebolire gli automatismi del pensiero, a svelarli e contestarli (già in Imprespressioni, del 1970-71:«rincasa la bocca / barca carca / nell’immagine isolata»). Talvola, come in certi Pensées in libertà vigilata, l’ostentata cadenza ritmica sconvolge in chiusa l’andamento prosastico e ragionativo: «Ci potrà essere mai speranza di pace se anche su un tema così grave e impellente come la guerra trionfano invidie, gelosie, ripicche e i penosi dispettucci di piccoli uomini mucci?». Notevole anche il nesso di parentesi e due punti, vero stigma stilistico dell’avanguardia (basti pensare a Edoardo Sanguineti, insieme al quale Nadia Cavalera anima la rivista «Bollettario») che manifesta tensione dimostrativa e insieme polifonia interna, per feconda abbondanza di argomentazione e dimostrazione. All’altro capo quantitativo rispetto dell’haiku sta il catalogo (Uno per tre, Golphe de Genes), specchio stilistico di una tendenza – anche questa tutta politica – alla repertoriazione del reale. Ovunque, in questo volume che raccoglie testi dai primi anni Settanta al 2005, dilaga il senso di una indignazione che non trova quiete, tanto meno nella pena: «Siamo nella brace dipinta di cielo ed è tutto telo nero Lo squalo piazza i complici sulla scacchiera bacata d’un posto unico plurimo Popolo mio cambia solo la pancia di chi t’ingoierà softamente senza vederlo a sapere» (Siamo).