Gatti e altro

di Dario Bellezza

Recensione di Franco Campegiani

Dario Bellezza dice di sé: "lo non sono un romanziere, sento di essere uno scrittore autobiografico". E ancora: "Ho anche una vena ideologica e politica..., ma nella letteratura non sento molto l'impegno politico". Dov'è dunque il poeta ribelle che tutti conosciamo? Credo di non sbagliare affermando che la denuncia sociale di Bellezza si radichi nel disagio e nel malessere che l'individuo prova di fronte alle massificazioni ideologiche e ai vari perbenismi collegati. Non dunque ribellione sociale, ma rivolta nei confronti del sociale, o più esattamente nei confronti di una società che rinnega se stessa, rinnegando la solidarietà, la convivenza e quindi il rispetto individuale.
Il poeta sa che la verità sta nella natura, negli istinti vitali, e sa che l'individuo è la pietra miliare delle sane leggi d'amore che vigono nell'ordine naturale. Sa che l'uomo tradisce queste leggi, ed è qui che scatta la sua rabbia nei confronti degli umani. Nondimeno sa di essere anche lui malato di umanesimo e si sente perdente al confronto con il mondo naturale. Gatti e altro vuole in fondo essere un'autoanalisi che il poeta fa di se stesso di fronte al confessionale del credo. Lontano dagli uomini, che indubbiamente biasima per i loro artifici mentali, egli scopre di essere ancora più lontano da quella natura che ama, irrimediabilmente contagiato dal morbo dell'umanesimo, come tutti lo siamo.
Alterni e contraddittori sono dunque i sentimenti che Bellezza prova ed esprime davanti ai suoi gatti. Partecipe della sofferenza di ogni creatura, il proprio pietismo intravede una possibilità di salvezza nella compagnia e nel prendersi cura gli uni degli altri. Così sgrida quella gatta ("Sfortunata") che è "come se non appartenesse alla razza dei gatti", come fosse "un extraterrestre, un UFO, un fantasma / dell'Opera", lei "dimentica / di ogni solidarietà animale", lei "così / ferma nel mangiare schifa il cibo / che le porgo". Ma poi sembra accorgersi del "troppo umano" insito in tali sentimenti e pensa che la gatta possa raggiungere l'amore proprio con tale sua natura infingarda. Perfetta è lei, nei cui occhi "l'universo scioglie / un'ultima canzone d'amore".
Ed eccolo, il nostro, invidiare la "gattità", inutilmente interrogandosi sul come poterla raggiungere: "La gattità è un'entità / fissa e superba / di cui gli uomini sono / totalmente sprovvisti". "Allo sbaraglio nel regno del Patetico", il poeta rimpiange di non essere stato abbastanza zelante nei confronti della gatta smarrita e non più ritrovata. Ma "innocente / più di ogni innocente, palpebra di pianto, / mi hai dato una lezione di umiltà / il silenzio altissimo di chi / non ha voce o lacrima per protestare / ma accetta il duro destino con gli occhi / della mente, guardando spaurita il mondo".
Di fronte a questa "purezza della natura vittoriosa", fiera di essere quel che è, un punto intermedio fra il tutto e il nulla, che racchiude in sé negazione e affermazione, insensato — se pure comprensibile — è il lamento dell'uomo sorpreso a chiedersi: "Chi sono / dunque? La domanda è pertinente / più di qualsiasi possibile risposta / alla quale si può obbiettare / che il nulla e il tutto / sono la stessissima cosa".
Il libro, pubblicato dall'Editrice Fermenti nella Collana "Iride", diretta da Amanda Knering, contiene tavole d'impianto surrealista di Francesco Paolo Delle Noci, nonché un'appendice di interviste con l'autore a cura di Maurizio Gregorini. Inoltre è riportato un articolo di Dario Bellezza, dal titolo "La mia Roma", mentre il tutto è concluso da una recensione al poeta a firma di Pier Paolo Pasolini, risalente al 1971.

Franco Campegiani