La vita non è elegante

di Marco Palladini

Recensione di Mario Lunetta

da Accademia Platonica, Febbraio 2003

Il titolo di questo libro di poesia di Marco Palladini è un aforisma crudele. E', in fondo, una messa in guardia, magari una minaccia profferita da uno che non indossa maschere di ferro o di gomma, ma ama mostrare il suo volto così com'è, meglio: così come se lo è costruito. La vita non è elegante:qualcosa che allude al suo orrore, più che alla sua rozzezza. E difatti, il sottotitolo porta, molto esplicitamente: Satire, Agoni, Scenari e Agonie, tutto con iniziali maiuscole, quasi con gusto da cartellone pubblicitario parodizzato, o da capoversi di capitoli di un'opera che si mette all'Indice motu proprio. Gli esergo da Rilke, Pasolini e Leopardi parlano chiaro: ma forse il ribaltamento interrogativo del celebre motto di uno dei Caprichos di Goya da più di tutto il senso delle intenzioni di Palladini (La ragione dei mostri genera sonno?).
E' infatti contro la miriade di mostri e di mostruosità in cui siamo immersi, e che costituiscono la norma aberrante del nostro vivere, che il satirico e Vagonista Palladini, esibendosi morente di una morte interminabile - come avviene appunto nel melodramma -, fìngendosi agònico e agendosi in realtà (anche) come corpo e voce teatrale, fa guerra aperta, accettando tutte le brutalità di uno scontro il cui esito è già scritto sui trattati della volgarità del consumo e del profitto - davvero come una legge di natura. Ab ovo e ad eternum. Ma ovviamente la parola e il concetto di SEMPRE riescono particolarmente ripugnanti all'uomo e al poeta Palladini, che si misura col caos del molteplice in modi non certo diplomatici, e al contrario conflittuali, radicali e definitivi. Così, la sua implacabilità letteraria è tale non solo perché l'oggetto che egli aggredisce è particolarmente micidiale, ma perché egli sa che nessuna blandizie lo può placare. A la guerre comme à la guerre: e Marco non si sottrae, anzi aizza vieppiù la sua franca inclinazione al rifiuto di ogni medietas. In quel libro di furente pacatezza che è Dialoghi di profughi, Brecht mette in bocca al personaggio Ziffel un giudizio lapidario sulle irrisolvibili aporie della morale capitalistica: "Sono contrario alla pretesa di mettere ordine in un porcile". Credo che Palladini non sia troppo lontano da una simile decisione.
Questa, la ragione fondativa del suo libro, tutto sopra le righe, tutto gridato, tutto esposto. Marco "sbatte il mostro in prima pagina" non per foia di stupire il lettore o per bassi interessi di bottega, ma esclusivamente perché non accetta scorciatoie ideologiche né comodi meticciati tra pulsioni corporali e aliti dello spirito. Il materialismo di Palladini è integrale, e integro. La sua testa intelligente funziona al dilà - e magari, contro - tutti i ricatti del quieto vivere poetico e deìrapaisement ideologico. Questo è un poeta che non ama la pacificazione per convenienza, ma lavora dentro la contraddizione permanente, per convinzione filosofica e per scelta esistenziale non trattabile. Di qui, senza scampo, un atteggiamento di scrittura assolutamente alieno da qualsiasi contemplatività, da qualsiasi irenismo, da qualsiasi gratuito plaisir du texte. Il testo, anzi, è spinto al massimo, vive di accelerazioni che nella loro efferatezza sembrano ingovernabili. La lingua non è un paesaggio immobile, non è una cartolina da gustare all'interno di una nicchia consolatoria: la lingua è un animale, e quanto più la si addomestica tanto più perde energia. Marco sa bene tutto questo: appunto non osserva le eventuali bellezze della sua lingua poetica, ma ne gestisce senso ed effetti dall'interno del suo prodursi.
Poeta perdutamente metropolitano, egli alimenta la sua scrittura (per fortuna, inelegante come la vita) di immagini torbide, di fetori da discarica, di rumori sordi o striduli, di sgangherate entropie, di sghignazzi, di lazzi, di cazzi, di genuflessioni a pagamento. Il suo è un teatro soprattutto romano, di una Roma stravolta e venduta, mascherata e triviale: proprio - iuxta Flaiano - "un bivacco sulle rovine". La capitale è allora, inevitabilmente, nel libro di Marco, non la visione incantevole dell'ideologia turistico-affaristica, ma un fantasma livido di bellezze falsificate, "una suburra dove i brasiltrans dai superkuli stupendissimi e basculanti / sublimano turistiche e roventi visioni di supercallipigie sambiste / e scatenate a Santo Salvatore della Baia d'Ogniss'anti. / Qui il Sant'Uffizio catto-apostolico romano / produce la pura dialettica dell'oscurantismo / e il Pope-model è più che una popstar flashata da paparazzi doc / è un arcipapa polacchino no-stop, / partorito nel suo incubo postremo da Papà Ubu". Palladini, come si legge in "Entropia anno 2000", testo d'incipit del suo libro, può permettersi di sputare su "Quelli che spropositano di poetare in punta di sandropenna / stortilabbruti oracoli dell'incommensurabile, / coll'occhio però scaltro al soldo e alla carriera". Egli, poeta villoniano e villano (anche nel senso dell'Emilio Villa da poco mancato, nei cui confronti il debito bieco della cultura italiana appare non saldabile, e morde a sangue come un rimorso), può permettersi di attestare: "Con dignità indosso il cappotto delle battaglie perdute, / uniche decorazioni le medaglie del non-oblio". Perché, si può aggiungere, agli uomini che sono poeti, e a tutti gli uomini, spetta il compito di non dimenticare. La memoria non è un culto, è un dovere.
E' ovvio che, per giocare una giostra di questa artaudiana crudeltà e di questa spietata cruenza, la quale si lascia attraversare da una quantità eterogenea di elementi e di stilemi, ingozzandosi di finte sublimità e di gerghi malandrini, di lessici ipertecnici e di spropositate oscenità, e trafitta da neologismi o jeux de mots spesso folgoranti ("dulcis in fungo" - allucinogeno; "la lingua batte dove l'inconscio duole"; "francamente non sono democratico / bensì ed immarcescibile un demokritico"; "Sovrattutto siamo ciò che non sappiamo": con allusione parafrastica al più celebre verso di Montale; "Non mai itali saremo ed elegiaci e lirici / ma tutt'al più barbari illirici"; condannati all'Infernet, i "fìglioletti della net-generation"; "Perché è la pubblicità l'anima del bluff", ecc. ecc.); per giocare una partita di questa dura complessità occorrono una densa cultura trasversale e una lucida consapevolezza critica, nonché un senso del comico-sarcastico di prim'ordine. Qui, come voleva Baudelaire, il poeta e il critico convivono, inarcati nello stesso exploit offensivo. Offensivo e, ripeto, violentemente comico: sia nel senso del riso di un Rabelais infuriato, sia nel senso dantesco, di lingua "bassa", di strategia antisublime. E la sfida di Palladini è, appunto, quella di produrre un riuso criticamente straniato della macrokoiné della Menzogna Universale, svuotandone l'ideologia truffaldina, azzerandone la filosofia della comunicazione che da parola solo a se stessa, sbeffeggiandone le pretese interclassiste. La tecnica del boomerang, insomma.
Un libro politico, quindi, La vita non è elegante? Un libro, direi, fatalmente politico: e non soltanto per le tematiche pure spesso esplicitamente sociali, economiche, politiche che mette in scena, e dentro il maelstrom delle quali il soggetto poetante, "dissipato incasinato sempre in bolletta" si aspetta soltanto Atti Teatrali Innominabili (tanto per non lasciare fuori dalla porta il grandissimo Beckett); ma per le mosse in cui si esibisce, disperatamente, narcisisticamente, in rotta di collisione assoluta con tutte le Tenerezze, le Malinconie e le Ruffianate della meretricolare Convenzione Ideologica Accreditata, anche in Letteratura. Un libro scomposto, onnivoro, affamato di riti antagonistici e non di miti accattivanti ed obliosi; nel quale convivono, come in una gehenna senza scampo né misura, i coatti delle periferie discaricate del pianeta, i dannati del cellulare scatenati a far quattrini, i cacciatori di teste che "finiscono loro per primi decollati", il magnifico attore-autore-autistico-autentico-autogeno che si chiamava Victor Cavallo, nato come chi vi parla nel gloriosissimo quartiere della Garbatella, e per i cui funerali la città non si è paralizzata fino alle quattro del mattino, Marilyn che non era Marilyn ma solo Norma Jean Baker Mortenson, e una quantità di campioni di pugilato, angeli del massacro e della sconfitta: tutta gente ospitata all'ombra del Fondo Monetario Internazionale e delle guerre che continuano a continuare...
Quest'orgia di scrittura poetica canaille è uno straordinario gesto di opposizione, non soltanto perché si dichiara "non in vendita" anche se occupa brutalmente la scena e la vetrina del linguaggio. Lo è soprattutto per la radicalità senza alibi del suo ingaggiarsi smisurato, in tempi di furberie e di tattiche e pretattiche vili. L'impegno di Marco non suona il piffero a nessun datore di legittimità, foss'anche il più degno, o il meno indegno: suona la sua musica aspra, dura, intrattabile, che è quella di un delirio sano, capace di percezioni che mettono out ipocrisia e decoro, questi virus immortali della nostra letteratura scritta, a partire dalla Controriforma, quasi irrimediabilmente nella lingua dei preti. Egli sa, e lo scrive nella penultima pagina di La vita non è elegante, questa sì esplicitamente aforistica - con la memoria e la tensione presente a Lautréamont, che "i veri poeti non sono mai gli autori dei loro versi: essi non scrivono, sono scritti, così come io con loro non parlo, sono parlato..."

Mario Lunetta