La vita non è elegante

di Marco Palladini

Recensione di Cesare Milanese

"La vita non è elegante" è un titolo elegante, ma come lo è un ceffone ben assestato. Il suo asserto è innegabile: la vita non è elegante. O meglio, la vita odierna non è più elegante. E' diventata inelegante, perché sta diventando sempre più oscena. Marco Palladini sembra essersi posto un quesito: se la vita è questa con quale letteratura si può rappresentarla? Non certo con quella dell'eleganza della letteratura di tradizione. Se la realtà sovvertita è diventata sovversiva, la letteratura che con essa si confronta sarà radicalmente eversiva. Deve esserlo: è una questione di sopravvivenza per la stessa letteratura e anche per la vita. A questo punto la letteratura diventa letteratura agonistica. Ne consegue che alla violenza si risponde con conseguente violenza. La realtà è inelegante? Non ci si aspetti che la letteratura adoperi l'eleganza per edulcorarla. La realtà è blasfema? La letteratura ha gli strumenti per rispondere ad essa con la sua capacità di blasfemia, smascherandola.
Stiamo parlando della realtà nella sua strettissima attualità. E' nei confronti del modo con il quale si presenta questo tipo di realtà che Palladini interviene con consapevole controviolenza. Un esempio di come si presenta la realtà di strettissima attualità, rispetto alla quale Palladini assume la posizione dell'antagonista, ci può essere fornita da una fotografia che campeggiava la settimana scorsa sulla prima pagina del "Corriere della sera". La fotografia è a colori. Vi si vede il corpo di un soldato americano (il corpo ma non la testa) in tuta mimetica che sta leggendo un libro la cui copertina ha i colori e il disegno della tutta mimetica con la quale si confonde. Il soldato è uno di quelli di stanza dalle parti del Golfo pronto a balzare sull'iniziativa. Ed è un soldato di colore. Non lo si vede in viso, ma gli si vedono le mani e le mani sono nere. La didascalia che accompagna la fotografia dice: "Soldato USA legge la Bibbia 'mimetica'."
Come si evince facilmente questo frammento di realtà cogente ed evidente si presenta coi connotati di una questione estetica. Non è fuori posto chiedersi se la mise en guerre del soldato e del libro sia o non sia una questione di eleganza o di non eleganza. Il nodo della questione sta nel fatto che si possono affermare entrambe le cose: c'è della eleganza e c'è il contrario dell'eleganza; così come si può affermare che c'è al tempo stesso della sacralità e insieme della blasfemia. La realtà della strettissima attualità è estremamente complessa. Implica un gioco di corrispondenze complesse. Basti pensare al fatto che al soldato USA corrisponde dall'altra parte il soldato di Allah, equipaggiato anch'egli alla stessa maniera, esteticamente parlando, anche se il suo libro è il Corano, la cui copertina arabescata è già cromaticamente predisposta ad accostarsi mimeticamente ad una tuta mimetica.
Si dica quel che si vuole, ma una realtà congegnata con questa mostruosa complessità e con questa complicazione di intrecci di molteplici contraddizioni è indubbiamente possente. Di fronte ad essa non si può essere complimentosi, non si può essere compiaciuti, non si può essere eleganti. Non lo si deve. Bisogna starle alla pari. Anzi bisogna starne al di sopra. Superarla in blasfemia e in violenza. In questo caso, il poeta, l'artista, in qualità di funzionario del genere umano ha una risorsa a cui ricorrere da parte sua: l'intelletto umano (una volta si chiamava così) posto di fronte all'incongruenza del reale è chiamato a montare in furore, ad andare su tutte le furie, a costo di allearsi con le furie. Il poeta risponde al gioco con un controgioco, in nome del bisogno di verità, raddoppiando la forza dell'urto che lo ha investito. A la guerre comme à la guerre ? Se così è così sia.
E' consequenziale che una letteratura di questo genere inalberi in vetta l'invettiva. Quella di Palladini è una poesia dell'invettiva. Lo è dall'inizio alla fine, in tutto e per tutto, con tutto e su tutto, senza tregua, senza concedere e senza concedersi respiro. Se la realtà è ossessiva, io le rispondo in ossessione: la rendo ancora più ossessa. D'altronde se la configurazione della realtà è ossessiva, lo è perché è essenzialmente caotica (logicamente, fisicamente, eticamente, esteticamente); ed è essenzialmente caotica perché è essenzialmente entropica.
Infatti la prima poesia della raccolta si intitola Entropia anno 2000: il "Millennium Novum", al quale il poeta augura "duemila auguri di auguri malaugurati". Evidentemente non tanto il venditore quanto piuttosto lo spacciatore di almanacchi nuovi ha optato per il lasciar perdere le blandizie e le rassicurazioni. Il secolo (anzi il millennio) che verrà sarà senz'altro peggiore e non migliore di quello passato. Per sincerarsene basta dare una occhiata alla vita corrente ed esistente: una vita da accatto, una vita da strada, racattata sul lastrico dell'etica e perciò senza estetica, senza eleganza. C'è un aforisma di Palladini che dice: "Siamo sulla strada per tramontare, per dimenticarci, per svanire (la vanità): chi ci vuole salvare deve abbandonarci." Se è così, è fuori luogo ricorrere all'inganno della pietà: non è proprio il caso di fare i samaritani.
Che cos'è entropia per Palladini? Le sue parole: "Entropia è l'incongruo cercare i profumati giardini di magnolia e invece approdare ai santuari del crimen religioso organizzato." Oracolare, certo, ma non di meno interpretabile. La parte della frase che dice "è l'incongruo cercare i profumati giardini di magnolia" può riferirsi alla letteratura, il cui esito si propone di essere consolatorio anche quando vuoi dire che l'esito consolatorio è del tutto illusorio (come succede per esempio nel capitolo finale dell'Ulisse di Joyce, - e colgo l'occasione della sua recita a Roma avvenuta in questi giorni con la compagnia Marcido Marcidoris e Famosa Mimosa, - dal momento che i giardini andalusi vagheggiati da Molly Bloom sono precisamente i "profumati giardini di magnolia" citati da Palladini).
Mentre la parte della frase che descrive la condizione umana odierna come "approdo ai santuari del crimen religioso organizzato" vuoi essere l'indicazione di scelta per una letteratura del tutto altra dalla precedente: una letteratura che aderisce all'azione di controrisposta all'entropia come forza che affronta l'entropia e la diventa a sua volta. Il che comporta una elaborazione di convinzione prossima a quella che fa da spinta all'animo del kamikaze.
L'icona del soldato americano che medita la guerra con la Bibbia mimetica (mimetica in tutti i sensi) e l'icona di Bin Laden con il kalashnikov che il Corano lo recita ed inoltre l'icona di Saddam Hussein con il cappello a lobbia che brandisce il fucile, fanno al caso nostro come illustrazione di questa estetica non estetica, in cui trionfa ciò che Palladini chiama "approdo ai santuari (e ai santoni diremmo noi) del crimen religioso organizzato. E taccio degli altri santoni e santuari da tanto sono evidenti.
Ecco i bersagli di Palladini: il crimen religioso organizzato, il crimen politico, il crimen sociale, il crimen umano e il crimen vitale, comunque sempre anch'essi organizzati. Contro cui Palladini si scaglia con furore. Perché tanto furore? Perché è il furore stesso che infuria nel reale. Un reale ridotto a cerimoniale da sarabanda attorno a idoli "theocratici" contrapposti e nello stesso tempo appaiati ad idoli "technocratici" (Palladini trascrive queste due parole inserendovi delle acche (h) denigrative). Due stirpi di idoli che risultano invece ricavati dallo stesso bronzo in cui è stato ai suoi tempi fusa l'icona di un unico Moloch. Questa immagine mi sembra la migliore definizione di ciò che si deve intendere per entropia. L'immagine di questa commistione di idoli attuali e remoti, contro i quali il poeta di strada impreca, ci porta direttamente ad archetipi letterari di fondazione, che in questo caso vengono riesumati. Si capisce, per esempio, che le metropoli dell'era della globalizzazione (processo evidente della entropizzazione) possono essere equiparate alla Cartagine di Salammbò. L'associazione escogitata per via di letteratura ci fa scoprire così che Cartagine è riuscita a conquistare Roma e ha messo in moto il meccanismo della sua dissoluzione, dal momento che Roma, la metropoli occidentale, è diventata una Cartagine regressiva ed entropica. Flaubert aveva dunque ragione.
Flaubert aveva ragione in tutto meno che in una cosa. L'avvento della trasformazione attuale di Roma in Nuova Cartagine manca di una cosa di cui l'Antica Cartagine era dotata. La Nuova Cartagine è una Cartagine senza Salammbò. Non c'è posto per il delirio divino di Salammbò, per il suo impeto di vita, nell'era del Self elaborato nel magma mediatico dell'idolatria technocratica, in ragione della quale l'umanità è ridotta alla spettralità televisiva, sia che si mostri felice, sia che mostri che soffra. Si mostra, ma non lo è. Nell'un caso come nell'altro, felice o sofferente che sia, cioè che appaia, essa simula. Finge di essere, ma non è. Questa visione dello spettacolo dell'umano, ai tempi dello Sturm und Drang, a cui Eraldo Affinati, in quarta di copertina, associa la poesia di Palladini, sarebbe stata commentata come una ricomparsa archetipica della dance macabre dei misteri medievali. Indubbiamente non si può negare che la realtà della nostra stretta attualità non sia avviluppata da un'evidente reviviscenza di idolatrie teologiche. Anche questo è un aspetto che la poesia di Palladini mette a bersaglio, vale a dire in vista.
La qual cosa fa sorgere un'altra associazione con un archetipo letterario di fondazione. Che tipo di poeta è il poeta che Palladini intende incarnare? Chi son "li maggior sui"? Chi lo precede, come "tipo poetico" iniziale? Se è attendibile il richiamo alla dance macabre, allora il nome più remoto che mi viene in mente è quello di Rutebeuf (siamo nel Milleduecento), il precursore di Fracois Villon e quindi capostipite dello stuolo successivo dei poeti che si vogliono maledetti o che maledicono, nel senso che dicono male di ciò di cui i poeti in genere si ostinano a dire bene, illudendosi ed illudendo. Marco Palladini vi si ravvisa in questo corteo di chierici randagi, che da scomunicati scomunicano un mondo scomunicato. Dice di sé: "Ci dev'essere in me l'atro mix tra un monaco e un teppista."
Ho citato Rutebeuf, non a caso, avendo io avuto occasione di tradurre anni fa proprio la dance macabre del Miracolo di Teofilo per uno spettacolo teatrale. Parlo perciò con cognizione di sentore di affinità delle movenze del genere letterario che fa da incunabolo ai testi di Palladini, il quale tra l'altro, sempre non a caso, è autore preso dal demone del teatro: demone per il quale il teatro è il giusto luogo dove ogni buona predica si presta ad essere rappresentata come cerimoniale di scorticamento. E' a questo che Palladini aspira: a scorticare il reale.
Va da sé che in tutto ciò l'eros ha la sua parte. La sua gran parte. La sua malaparte. E' un eros priapescamente "vantane" per ricalcare una delle ossessioni di Pasolini, che l'autore cita e non solo in esergo: "Noi ci arrapano le curvilinee femmine/ di seno generoso e furibondo/ di deretano largo e vertiginoso/ secondo un'autostrada per Sodoma City." E' un eros, vantone, lazzaronesco e incazzato: incazzato anche perché intende essere punitivo, soprattutto nei confronti della condizione e della nozione d'amore, verso cui ostenta la pratica del vilipendio. Lo classifica così: "l'amore è un vampiro sdentato."
Essendo questa una poesia dell'invettiva, l'eros che ne è il vettore sarà un eros che pratica l'invettiva. Il poeta si serve di questo tipo di eros sfruttandone l'energia e la famelicità, alla disperata, "a tutta callara" direbbe il già citato Pasolini, "a tutta cannabis" dice Palladini, approdando magari, perfino sentimentalmente, sotto il balcone di Marilyn Monroe, la donna d'amore che gli altri (gli altri nel senso dell'essere diversi da lei, la diversa per eccellenza) hanno vilipesa: "Quante volte hai fatto l'amore stasera / con quanti milioni o miliardi di uomini. / Tutti i loro desideri osceni o candidi / hai dovuto, bionda e sfinita, soddisfare."
C'è dell'inquietudine in giro? Ebbene, Palladini che dispone di un sosia ("c'è uno che va in giro / con la mia faccia / e col mio nome") e manda questo suo doppio a fare il cantore all'effigie di Marilyn Monroe, la quale dispone anche lei del suo doppio (essendo una sosia di se stessa) con il quale suo doppio essa si è tal punto identificata da non poter più ritornare indietro. Invano, troppo tardi, essa dice: "Io non sono Marilyn / io sono Norma Jean Baker." Il dolorante poeta, a questo punto, è più soddisfatto che disperato, confessiamolo. Ha scoperto nel simulacro di Marilyn la portatrice della condizione del doppio, della scissione, della alienazione. Nel simulacro di Marilyn Monroe, che per l'appunto non è la Salammbò del nostro tempo (Salammbò era elegante, Marylin Monroe non ha mai saputo essere elegante) (anche se entrambe muoiono per suicidio), Palladini ha trovato il suo idolo che gli consente di lanciare le sue invettive contro gli altri idoli e ne trae le vendette.
D'altronde se l'alienazione, di cui Marylin è il simbolo, è la condizione di fondo della vita incombente e soccombente, non c'è che un mezzo per affrontarla, saltarci dentro con paranoia volontaria, con "paranoia acquisita", dice espressamente Palladini: "Anche se non posso essere un figlio della mezzanotte / ma solamente uno scriba nottivago e azzardoso / aderisco io pure e con fervore alla campagna / per la paranoia (di) spiegata al popolo." Ci sono dei precedenti di questo tipo di scelta, marcata dall'improntitudine della follia calcolata. Il più circostanziato è quello escogitato da Salvador Dali, quando ha pensato proclamarsi portatore della "paranoia critica"; e volendo giustificarsi per questo anche scientificamente è andato a chiedere, al proposito, l'avallo di Lacan, ottenendolo. Si deve ammettere che hanno un fiuto razionale infallibile nella costruzione delle mattità affermative di sé i poeti e i consimili dei poeti.
Personalmente io raccomanderei al lettore di annotarsi le seguenti poesie, perché le più indicative, oltre che le più complete, del modo di dire poetico di Palladini. Oltre le già nominate Non sono Marilyn e Syndrome di paranoia acquisita; e le già indirettamente citate Sosia e Gemelli, mi si lasci, per concludere, spendere qualche parola in più per L'ode all'attore che si era chiamato Cavallo. Ci sarebbero altre composizioni su cui vorrei soffermarmi. Rilevanti per me almeno due che hanno per oggetto, più che il furore ideologico per le vite umane diventate inumane, il furore fisico della natura: E' deserta oggi la Marina e Tracimano i laghi / e i fiumi esondano.
In particolare mi va di ricordare L'ode all 'attore che si era chiamato Cavallo (si tratta dell'attore e poeta Victor Cavallo, morto stragiovane non molto tempo fa) anche perché (l'autocitazione in questi casi è concessa, dal momento che intende essere anche una testimonianza partecipe) Victor Cavallo, una volta, è stato interprete di un mio pezzo teatrale intitolato Nadir, nella veste di un guerriero chiuso interamente dentro a una corazza che blaterava dal fondo di un sepolcro: un luogo del Nadir, il contrario dello Zenit, appunto. Noto che Palladini colloca Victor in una posizione consimile a quella da lui rivestita col mio personaggio. Un collocato nel fondo. La prima strofa dell'ode di Palladini dice così: "Stelle vagabonde e dèi barboni..."
Se Federico Garcia Lorca ha scritto il Lamento per la morte di Ignacio, Palladini ha scritto il lamento per la morte di Victor Cavallo. E' un parallelo che si pone da sé. L'Ignacio di Garcia Lorca muore nel fasto spettacolare della corrida, incomato dalla forza della natura rappresentata dal toro, tra gli osanna di un compianto che lo applaude per la sua morte come lo si è un momento prima osannato per la sua vita. Vita e morte fastose e rituali, cerimoniali, sacralizzate. L'Ignacio di Garcia Lorca, contrariamente a Victor Cavallo, l'eroe suberoe di Marco Palladini, ebbe una morte elegante perché ebbe una vita elegante (la vita con lui è stata elegante). Ma sono cambiati i tempi : nel frattempo sono cambiate le vite e sono cambiate le morti. La vita con Victor Cavallo non è stata elegante.

Cesare Milanese