Numero speciale della rivista Fermenti dedicato a Franz Kafka

FERMENTI n. 7-9 Luglio-Settembre 1985

pp. 64, € 10,00

FRANZ KAFKA:

UN DIVERSO ALLE PRESE CON LA NORMALITÀ

a cura di Pasquale Licciardello

 

Una semplificazione

Il presente scritto vorrebbe giustificare la seguente affermazione: l'opera di Kafka ruota intorno a un asse «tematico» che possiamo semplificare nel con­trasto tra l'uomo normale e il diverso. Dove normale indica il tipo caratteriale energico, estroverso, pratico, realizzatore; dunque capace di successi «monda­ni», vale a dire professionali, sociali, economici, politici; e diverso segnala il ti­po in larga misura opposto al primo, cioè poco energico, introverso, poco o per nulla pratico e scarsamente incline all'azione; per contro, molto sensibile e reattivo, dotato di immaginazione ricca e perfino eccessiva; vulnerabile, poi, nei rapporti con la realtà e con gli uomini, e portato, perciò, a reazioni di fuga di fronte a sollecitazioni di impegni sociali, istituzionali, professionali; fuga verso la «tana» della propria intimità, nella più gelosa e trepida soggettività, dove gli chocs del mondo giungono deformati, e come echi smorzati s'avvertono le voci aggressive degli altri esseri umani.

I termini normale e diverso sono una scelta di comodo, ma giustificata dal modo di vedere e vedersi del diverso (occorre avvertire che il termine, qui, non include nessuna allusione sessuale?); il quale, appunto, confrontando se stesso con l'altro tipo caratteriale, tende a considerarlo normale in contrapposizione alla propria presunta anormalità o diversità. Tendenza che denuncia una con­dizione prevalente di invidia da parte dell'introverso timido verso l'energico estroverso attivo. Invidia e, di conseguenza, timore. I quali, comunque, non escludono che nei momenti «positivi» sia il diverso a giudicare il normale, «dall'alto» della sua superiorità intellettuale, della sua maggiore sensibilità estetica, culturale, umana. Solo che quei momenti sono poco frequenti e che, ad ogni modo, l'oscillazione tra invidia-timore e disprezzo vede prevalere net­tamente il primo polo, generando una condizione di quasi permanente infeli­cità (e insomma, di scarsa disposizione appetitiva).

Un surrogato della vita: l'epistolario

Un uomo fatto di letteratura, dunque, e già il Diario ne costituisce una elo­quente prova; ma ciò che disegna meglio l'ambiguità dell'identificazione è 1 epistolario. Qui la componente inferiore, negativa della vocazione letteraria è più scoperta assai che nel Diario, dove, bene o male, si tratta di sfoghi privati almeno, in prima istanza. Ma le lettere, non sono soliloqui, sono comunica­zione, rapporto, contatto, e magari conflitto, umano: abbandonarsi agli stessi sfoghi del diario, cantare la medesima musica di lamenti lamenti lamenti, con il centro irradiante nella consueta autodenigrazione, significa un paio di cose poco positive: primo, che la «malattia» della diversità era, in Kafka, più forte (e devastante) di ogni senso della dignità personale, della virilità, dell'onore; secondo, che questa diversità lo disponeva meglio al rapporto epistolare che a quello fisico. Troppe, infatti, le lettere scritte da Franz, specialmente alle «sue» donne.
E queste lettere d'amore o d'amicizia tenera sono, appunto, gremite di confessioni gementi, di mea culpa recidivi, di autoanalisi distruttive. Non mancano i momenti di serenità, o piuttosto di gioia frenetica, di esaltazione euforica, di entusiasmi anche troppo facili; ma prevalgono i lamenti. O me­glio: lamenti intrecciati alle più varie espressioni della diversità: insicurezza, indecisione, ansia, l'incapacità di fermarsi saldamente su una scelta, la reazio­ne di fuga dinanzi alla possibilità di realizzare un approccio corporale (reazio­ne, magari, vinta, talvolta, ma a qual prezzo di trepidazioni, ripensamenti, paure quasi fobiche) o di concretizzare un legame affettivo morbidamente epi­stolare e problematico in un impegno virile di soluzione matrimoniale o di re­lazione extraconiugale completa. Tutto questo, ed altro dello stesso conio, riempie l'epistolario, e ne fa un'opera di letteratura inferiore, (con buone ec­cezioni), come sostituzione deresponsabilizzante del fantasma verbale alla vita vissuta, come vita vicaria, forse sublimata, ma quanto impoverita, dissangua­ta, tradita nella spettralità esangue del segno che divora la cosa, dell'immagi­nazione che usurpa il posto della realtà! La stessa concitazione delle frasi in­calzanti, quella sorta di delirio «frasale» che agita molte lettere è un parametro della qualità inferiore di questa produzione. La quale, tra l'altro, s'impingua­va nei periodi di stanchezza creativa, di sterilità narrativa, e finiva, anzi veni­va alimentata come surrogato di una produzione letteraria impossibile. Signi­ficativamente, l'attività epistolografica si riduceva in ragione diretta all'inten­sificarsi dell'impegno creativo.
Letteratura, insomma, ad ogni costo: anche a quello di scrivere lettere al posto di racconti e capitoli di romanzi, pagine di diario invece di narrativa. Fino magari a una o due lettere al giorno, con pause forzate, riprese, aggiunte (sui margini dei fogli, o — come capitava al Verga — di traverso sullo stesso fo­glio), correzioni e ripensamenti, un dire e smentire estenuante, con tanto di ora segnata, o almeno con le varie parti del giorno bene indicate in relazione a pause e riprese.
Letteratura, anche a costo di scadere nel lamento monotono, nella banalità ripetitiva, nell'esibizionismo delle proprie piaghe. Fino al punto di stancare le destinatarie.

Fenomenologia della diversità: l'opera letteraria di Kafka

L'intera produzione narrativa di Kafka ruota intorno al «marchio» della di­versità alle prese con la normalità: è una fenomenologia della diversità o, se si vuole, del Potere (come è stato scritto); ma, appunto, e sempre: un potere visto dalla «tana» soggettiva del diverso, insomma del debole.
Smentendo nei fatti la pretesa, radicale, dicotomia tra lavoro «borghese» e lavoro letterario, tra ufficio (e negozio, e fabbrica) e dimensione fantastica, Kafka non fa che trasporre le esperienze della sua esistenza diurna nelle fanta­sie della notte, le difficoltà dei suoi rapporti con i «normali» del lavoro quoti­diano nelle enigmatiche, paradossali complicazioni delle relazioni dei suoi personaggi col potere. Lo scarto tra il quotidiano e il fantastico è segnato dalla sua particolare percezione dello stesso quotidiano come enigmatico (20), dalla sua penetrazione «metaempirica» della realtà empirica; dalla capacità di co­gliere — nel filtro della diversità — i lati mistici delle cose e degli eventi. Per questa capacità (o fatalità) egli può ricodificare in termini di universale poliva­lenza «ideologica» l'apparente unidimensionalità del vissuto, dell'empirico: di qui, le interpretazioni metafisiche, religiose, socio-politiche della sua narrati­va: è la pagina kafkiana a suggerire e giustificare. Salvo, poi, a rimandare a una dimensione più profonda e condizionante, e insieme più prosaica: quella biografica. E da questa, infine, alla realtà fisiologica dei suoi DNA. Dove lo scavo ermeneutico può anche non fermarsi, a patto, però, che il misticismo si scrolli di dosso ogni pretesa di dimensionalità religiosa come assoluta e si con­tenti di una cosmicità che tutt'al più si può riassumere nella domanda: donde il mondo, coi suoi protoni galassie quark e DNA? Una religiosità, se si vuole, del tutto laica e smaiuscolata, che non tolleri grosse menzogne e ipocrite edul-corazioni di una realtà che resta ambigua e (dal punto di vista del debole iper­sensibile) tragica.
Si leggano, pure, insomma, nelle grottesche storie kafkiane, i significati universali (metafisici e politici, religiosi e sociali) che vi si sono trovati; ma non si dimentichino due parametri obbligati: la sorgente autobiografica e fisio­logica dell'intera fenomenologia e il carattere niente affatto consolante e a lie­to fine dell'odissea kafkiana. I significati universali sono recuperabili alla loro scaturigine senza perdere la loro legittimità solo se non si pretendano primari e non si vogliano consolanti.
Inutile aggiungere che il materiale autobiografico confluito nei meandri narrativi di Kafka non concerne solo il lavoro di ufficio o di negozio; ma l'intera sua esperienza comprese, e non in secondo piano, le sue avventure amoro­se, che tanta parte hanno avuto nella fenomenologia della diversità kafkiana. È stato notato come più o meno tutte le donne della vita di Kafka siano adombra­te in questa o quella figura femminile della sua narrativa. Che era poi un altro modo di vivere «per procura», e insomma nell'astrazione letteraria le avventu­ra negategli dalla vita. Ovvero, il solito destino di sostituire la vita vissuta con la letteratura, la calda realtà dei corpi con le colorite immagini dell'invenzione narrativa, secondo quanto si è detto a proposito dell'epistolario. È vero: «La letteratura appariva come una sorta di alternativa al suicidio, ma essa era an­che un'alternativa alla vita» (Hayman, op. cit., p. 26), o almeno, «una cura defi­nitiva alla vita» (ib., p. 27).