Numero speciale della rivista Fermenti dedicato ad Alberto Moravia

INDICE DELLA RIVISTA n. 203 (1991)

  • VELIO CARRATONI: «Che barba parla l'avvocato»

  • DOMENICO CARA: Appunti (non speculari) per una definizione di Alberto Moravia

  • CARMELO R. VIOLA: Alberto Moravia o del «realismo borghese»

  • PAOLO ANELLI: Processo a Moravia

  • VELIO CARRATONI: Moraviana (Ipotesi di bibliografia ragionata/sragionata - inventariata - dal 1929 al 1991)

  • VELIO CARRATONI: Ritratti di Mario Russo

VELIO CARRATONI

«Che barba parla l'avvocato»

Avevo diciott'anni quando ho conosciuto Alberto Moravia. Era il 1961, mese di febbraio. Era appena tornato dall'India. Abitava ancora in via dell'Oca. L'attesa è durata circa una settimana.

Chiamavo per telefono e ogni volta mi pregava di richiamare, dato che era un po' influenzato.

«Ho un fastidioso mal di gola con tosse. Lei è un filologo?»

Sergio Vacchi, ritratto di Moravia, 1969, olio su tela

Sergio Vacchi, ritratto di Moravia, 1969, olio su tela

«Ho letto i suoi libri. Ho ascoltato qualche giorno fa una sua conferenza su Tolstoi all'Associazione Italia-URSS. Così vorrei approfondire qualche argomento di persona. A proposito, esiste il testo pubblicato della conversazione?»

«No, dato che ho improvvisato. Hanno registrato. Provi a chiedere all'Associazione».

Moravia mi dà appuntamento per un pomeriggio alle sedici.

Arrivo in via dell'Oca con sotto il braccio La romana, La noia, La ciociara, per avere dediche o scritte per ricordo (sono anni a cui si tiene a certe manifestazioni).

Alla porta c'è una targhetta con scritto Moravia. Mi viene ad aprire una donna di mezza età, il volto scuro, i capelli leggermente ondulati, il grembiule da donna di casa. Mi fa sedere su un divano, in un salotto ar­redato senza lusso o ricercatezza. Prevalgono una consueta e consunta normalità che sanno di accessibile e poco pretenzioso.

Dalle stanze adiacenti si sente Moravia discutere animatamente. Alza la voce ripetendo frasi con uno svolgimento verbale fluido e asciutto, il cui tono si fa secco e martellante. Non riesco a sentire cosa dice, dato che le parole provengono da stanze dalle porte chiuse. Né si sente rispon­dere. O chi dovrebbe (la Morante o chi?) forse lo ha già fatto, tanto che a Moravia non rimane che concludere, con aria concitata.

Quando entra in salotto, è rigido e risentito. Si muove a scatti. Va a sedersi anche lui sul divano, le gambe accavallate, il gambone allun-ganto e rigido. Muove le mani ora stringendole, ora disunendole. Mi fis­sa con gelida e distratta attenzione. Mi parla della sua attività ormai tren­tennale, con compiaciuta esposizione. Si arrabbia quando sa che voglio iscrivermi a Legge (che ho frequentato prima di Lettere): «Ma a che ser­ve? Che vuole fare l'avvocato dei somari? Oggi come oggi, sarebbe più utile frequentare Scienze Politiche, per poi intraprendere l'attività diplo­matica». Ricordo il protagonista de L'Imbroglio. Anche lui vorrebbe dedi­carsi a tale attività. Prosegue: «Bastano pochi anni di Lettere per avere un buon inquadramento sulla storia e gli autori. Ma lei può benissimo infischiarsene della scuola se vuoi farsi una buona cultura. Attualmente, da solo, sto studiando Storia della Musica. Ho rimediato una buona sto­ria e un bel po' di dischi. Così leggo e poi ascolto quegli autori di cui ho sentito parlare».

Gli chiedo notizie più precise su Tolstoi.

«Tolstoi è un realista, mentre Dostoevskij è un espressionista. Il se­condo, per questo, è più completo del primo. Dostoevskij è stato il crea­tore dell'esistenzialismo. Al contatto tra individuo e società, come in Flau-bert, Dickens, Tolstoi, ha sostituito il rapporto dell'individuo con se stesso. Per Tolstoi un albero è un albero. La differenza rispetto al reale è mi­nima. Il realismo alla Tolstoi che descrive minuziosamente ogni aspetto del mondo esterno non è più possibile. Dostoevskij fondeva la tecnica teatrale con la narrativa. Va più a fondo, anche se non sempre riesce a decifrare la realtà di fronte alla quale sembra disperdersi. Tolstoi ha ri­sentito di quel clima delirante anche presente in Wagner, ma quando ri­sulta dottrinario o precettista rimane freddo e schematico».
«A chi si sente più vicino?»
«A Dostoevskij, dato che mi considero un continuatore del suo esi­stenzialismo, lo sono stato molto precoce. La mia precocità mi ha porta­to a preannunciare in pochi libri tutta la mia attività futura. Mi sono ac­costato sia all'ambiente del popolo che a quello della borghesia, ma non avrei potuto descrivere i due mondi se non con l'occhio dell'intellettuale che osserva o vigila».
Quando ho avvicinato Moravia per la prima volta ero ancora uno stu­dente in formazione. Solo l'anno seguente avrei incominciato a scrivere sui giornali. Eppure Moravia mi ha ricevuto, mi ha parlato da teorizzatore sempre pronto a schematizzare, riassumere, condensare. Ciò che non mi è piaciuto di lui, forse perché reduce da un litigio (di lì ad un anno circa si sarebbe conclusa la vita in comune con la Morante) era il suo tono ge­lido, l'aria risentita e cupa, tanto diversa dagli atteggiamenti fanciulle­schi, più spontanei e incoscienti della vita dei suoi ultimi anni.
Ora capisco perché Moravia, nel 1961, era tanto aggravato e appiat­tito. La vita con la Morante lo stava rendendo un alienato, ancora più iste­rico, anche se aveva contribuito a renderlo più completo e realizzato co­me scrittore. Ma i due vivevano in un conflitto teso e nullificante come vita di coppia, contraddittoriamente più costruttivo ai fini di una buona riuscita artistico-culturale. Con Dacia e Carmen soprattutto, Moravia diviene sì, più sbarazzino, ma narratore sempre più dispersivo e approssi­mativo.
La conflittualità, mentre sminuisce a livello di rapporto, può invece potenziare a livello creativo? Questa, una domanda da rivolgere a buoni psicologi o psicanalisti. Comunque, l'atteggiamento umano di Moravia, nel 1961, era di un uomo finito che stava raggiungendo forme di isteria cronica e disperata. Sembrava ormai imbalsamato e ingoffito dall'iter quo­tidiano che lo appiattiva e annullava come uomo, non come artista.
Questa l'impressione da me verificata in un momento trepidante e perturbato della mia esistenza, durante la quale cercavo di scoprire, sa­pere. E quell'enigma, solo oggi, dopo la sua morte, riesco a decifrare.
Moravia ha avvicinato, come uomo, sempre donne sbagliate, ma co­me artista, l'unica a lui congeniale, la Morante, con la quale dal 1937 al 1961, si è dovuto raffrontare artisticamente. E tale confronto, non più mes­so in atto dal 1962 al 1990, invece lo ha portato ad andare oltre, come giornalista, inviato speciale, osservatore del costume. Ossia come uo­mo che va al di là di ogni limite coniugale.
Ritornando al mio primo incontro con Moravia, devo dire che per il clima tetro e alterato, non mi ha lasciato un buon ricordo. Da allora ho proseguito a sentire o a vedere Moravia, ma sempre meno, al Rosati, al Teatro dell'Opera, cercando più di evitarlo che di avvicinarlo. E quando l'ho rivisto a piazza del Popolo, qualche mese dopo il nostro primo in­contro, mi è rimasto impresso il suo sguardo, questa volta da osservato­re ancora più curioso con cui mi ha guardato per attimi prolungati, ma con un'intensità da decifratore brutale, trasognata e gelida ad un tempo. Non so cosa avesse notato con quello sguardo.
Ho proseguito a telefonare a Moravia, ma più con riserva che con accettazione. E quando alla Libreria Croce, lo sentii intervenire, agli inizi degli anni Settanta, su libertà di espressione e censura (c'erano, tra gli altri, Pasolini, raggomitolato e taciturno; Bellezza che commentava viva­cemente, in un angolo, la vita impossibile che vi era stata tra Moravia e la Morante), appena l'avvocato Giuseppe Sotgiu incominciò a parlare, Moravia si alzò e dirigendosi verso un gruppetto di accoliti, disse: «An­diamo. Che barba, parla l'avvocato».
Oggi che ricordiamo la sua scomparsa, non si può dimenticare che come narratore lascia ormai del tutto quel vuoto che dalla fine degli anni Cinquanta, inizio anni Sessanta, aveva già lasciato nel campo delle let­tere, dopo cioè la separazione dalla Morante. E se c'è stata considerazione o riproposta per tale autore, è avvenuto per le opere precedenti.

 

CARMELO R. VIOLA

Alberto Moravia o del «realismo borghese»

La sera del 25 settembre scorso ricevo da Roma una lunga telefonata del poeta e scrittore Rudy de Cadaval di Verona, che l'indomani, prima di ripartire per mete ulteriori, si sarebbe dovuto incontrare anche con Alberto Moravia. L'indomani, ascoltando, come al solito, il notiziario televisivo delle tredici, e mentre cerco d'immaginare il comune amico in lieta conversazione con il famoso collega, apprendo che questi è improv­visamente scomparso nella mattinata.

Domenico Colantoni, Moravia ultreriore, 1981, olio su tela

Domenico Colantoni, Moravia ultreriore, 1981, olio su tela

Quest'aneddoto, forse insignificante per chi mi legge, mi ha fatto rivivere il senso reale del concetto di «tragicità dell'esistenza» di Alberto Perlenghini, della «livella» del comicissimo Totò (che quel concetto aveva tradotto nella malinconia immaginificità, che sta dietro la voglia di far ridere) e alla «vanitas vanitatum» dell'Ecclesiaste... Da un momento all'altro cambia la «visione mentale» che si ha di una cosa, di una persona, perfino del mondo intero e basta poco. Così Moravia non mi appare più quello di qualche giorno fa e la cosa che più mi torna è la comune mortalità, uno stato d'animo totalmente estraneo alla retorica dei necrologi di rito e al mestiere di chi trasforma ogni evento in «notizie da mercato».
lo non sono mai stato un «tifoso» di Moravia. E non solo perché non ho mai amato la narrativa per se stessa. Da giovane ho letto, tra gli altri, i libri di Mario Mariani e di certa «romanzistica» francese e russa perché, pur con stili diversi, aveva (ed ha), come le opere del Mariani, valore di­dattico, di denuncia e perfino di promozione rivoluzionaria, nel senso ro­mantico e un tantino utopistico del termine. La prosa di Giovanni Verga (che pure ho letto con curiosità giovanile) è avvincente per la sua aderen­za fedele alla realtà minuta della povera gente e soprattutto a quella del corpo e del possesso della «roba» (realtà illustrativa della prima — ma non la sola — costante biologica dell'esistenza, ovvero della legge del-l'autoconservazione — molto pronunciata in chi meno possiede — e su cui Gino Raya ha costruito il suo «famismo»), ma non mi pare che il gran­de narratore catanese volesse andare oltre il «piacere» del ritratto roman­zesco, insomma che volesse in qualche modo cambiare le cose e quindi la sua stessa privilegiata condizione sociale. Moravia, che ha prodotto una cinquantina di opere (qualcuna anche teatrale), non è certo andato al di là. E se Verga è nato benestante, Moravia lo è diventato, ancor più, grazie alla sua «arte», lo diffido istintivamente di chi ha privilegi da con­servare: costui vive in una dimensione diversa, soprattutto superiore, ri­spetto alla mia, non può comprendere i miei problemi se non in termini accademici, esattamente come i superstipendiati della gestione politica non possono comprendere i problemi delle masse lavoratrici se non nei termini di un mestiere burocratico (spesso sporco e compromesso).

Queste «resistenze soggettive» non m'impediscono di affermare l'og-gettività dei fatti: Moravia è stato, senza alcun'ombra di dubbio, un «ge­niale artista della narrazione» e che egli si sia riconosciuto e identificato in questo, l'ha più volte affermato lo stesso, dicendo di credere nella so­la letteratura e di praticarla esistenzialisticamente, cioè come strumen­to e modo di colloquio con se stesso, insomma di autoidentificazione.

Da questo si può comprendere tutta la weltanschauung moraviana. Egli è il borghese illuminato perché accetta la realtà borghese e si riconosce in questa, ma non di tutta la società borghese, che comprende necessa­riamente ricchi e poveri, vincitori e vinti, privilegiati e diseredati, sì di quel­la parte che non è né eroica né succube ma sta bene, non ha problemi economici (semmai di conti in banca), non ha bisogno di «omologarsi» alla mentalità dominante (essendo essa la mentalità dominante) per ri­scattarsi da un eventuale stato originario d'inferiorità, come spesso og­gi fanno operai e lavoratori «proletari» sostenendo strutture e princìpi estranei (ed ostili) alla loro effettiva condizione di vita. Moravia sempli­cemente pensava secondo il suo stato socio-economico e in questo era coerente. Chi è arrivato, può permettersi il lusso di non occuparsi d'altro o di farlo «senza impegno». E che non fosse impegnato è ancora il Moravia ad affermarlo. Nemmeno la narrativa era un impegno: era solo il suo modo di essere. E in questo era sincero.

Moravia fu ateo per esclusione: anche il credere sarebbe stato un impegno superfluo (e fastidioso) ai suo modo di essere. E se, pur marxi­sta, accetta alfine (1983) la candidatura come indipendente a deputato europeo nella lista del PCI (uscendone eletto), ciò non può sorprenderci avendo quest'ultimo perso da tempo ogni motivazione e finalità rivolu­zionaria a favore della «realtà» borghese, come la carità cattolica non ha alcuna intenzione «cristiana» di debellare la povertà, ma solo di renderla sopportabile, e quindi compatibile, come una componente della società borghese. L'assimilazione dell'analisi freudiana e l'insistenza quasi morbosa sul sesso sono altri elementi del borghese che ha la possibilità eco­nomica di pensare a godersi l'esistenza nel migliore dei modi. Donde la sua predilezione per i viaggi (il che proprio non è una «riscoperta dell'America»!).

Proprio perché borghese illuminato, Moravia non si pone problemi di morale religiosa, semmai laica. Saremmo ingiusti se non gli ricono­scessimo il senso della misura civile e dell'onestà, propria di un borghe­se illuminato, che crede nella «leggittimità» e sacralità del suo «status». Del resto, la proiezione del successo di Moravia è un fenomeno tipica­mente borghese, cioè di un tipo di società concepita come contesto di concorrenza e di gara, in cui per l'appunto il successo risponde ad una scala di valori sui generis, senz'altro amorali, poiché riferiti esclusivamen­te alla tattica ed alla strategia del successo stesso (nella scala del pote­re economico o del potere semplicemente). Così, un'opera letteraria vie­ne pubblicata dal grosso editore solo se è più commerciabile di altre, ed è letta più per una questione di moda e d'induzione consumistica che per interesse specifico: il valore intrinseco del lavoro, inteso come con­tributo alla scienza e al bene comune — capisaldi di una vera morale, universale per antonomasia — è secondario o assente nell'uno e nell'al­tro caso. Ora, è fuori discussione che la prosa di Alberto Moravia, a par­te tratti di cattivo o pessimo gusto ed anche se talvolta scarna, è, nel suo insieme, magistralmente compita e piace per se stessa. Il fatto che — come affermano non pochi critici anche borghesi — avesse finito per girare intorno a se stessa, non ne menoma la valenza stilistica ma deno­ta appunto la limitatezza tematica, la conseguente inevitabile ripetitivi­tà, la naturale mediocrità speculativa. Tale prosa esauriva la propria fun­zione in se stessa. Moravia non aveva appunto, la tempra del filosofo e del teoreta, non cercava spiegazioni originali, semmai cònsone al costume borghese. Se per questo lo si è definito «moralista», ciò è stato fatto, a mio avviso, con totale improprietà di linguaggio. Egli era solo un «de­scrittore soggettivo della realtà borghese propriamente detta» di chi è riuscito o pensa che non ci sia altro da fare che «lottare per riuscire». È stato un rappresentante eccellente della letteratura del «realismo bor­ghese». Come tale non lo si può classificare né ottimista né pessimista: egli è semplicemente un uomo che percorre con successo il vicolo cieco dell'ideale borghese, che è quello del successo stesso, successo perso­nale s'intende, concepito come valore a sé stante non come mezzo di vi­ta, insomma (come si suoi dire) come «status-symboì», alla conclusione del cui percorso il soggetto accusa necessariamente stanchezza e noia. Nessun rimpianto (nel caso specifico), per ammissione dello stesso au­tore, se non, eventualmente, quello di non essere stato, in qualche occa­sione, sufficientemente capace di spingere fino in fondo il «gioco della gara», per esempio, nei riguardi di qualche donna interessante.

Certo, ognuno da quello che geneticamente ha, senza merito o de­merito. Ognuno risponde agli imperativi del DNA prima che a qualunque altro, ma è anche il prodotto del tempo-ambiente in cui si forma un co­stume culturale (la cosiddetta «seconda natura»). L'individuo reale è la resultante di un triangolo di cui un vertice esprime le necessità biologi­che costanti comuni a tutti i suoi simili, gli altri due, altrettante «media­zioni» rispettivamente genetica e socio-culturale. E più alto è il suo livel­lo evoluzionale, più egli può rendersi conto che l'esistenza è anche un'av­ventura vissuta con gli altri e per gli altri, per i presenti e per i posteri e non solo perché senza gli altri nessuno esisterebbe, non solo perché con gli altri c'è mutualità di affetti e di amore, ma soprattutto perché ne­gli altri, e nella memoria degli altri, si sopravvive realizzando il livello su­premo (e per questo insieme poetico e morale-estetico ed etico) dell'auto-identificazione.

Moravia provò da giovane la malattia. Il successo gli arrise natural­mente per il suo talento «affabulativo», perché insiste su fatti reali risco­prendo motivi e risvolti ambigui della sessualità, taciuti o ignorati dal let­tore medio e che, proposti in versione romanzesca, acquistano il sapore della rivelazione peccaminosa. È assai probabile che la fortuna di scrit­trice di Frangoise Sagan sia cominciata proprio così, ma è impossibile fare un parallelo con il nostro Autore. Altro motivo del favore iniziale del Moravia è paradossalmente il suo non essere fascista in un'epoca in cui esserlo — o il fingere di esserlo — era condizione di sopravvivenza.

Se si vuole essere onesti nel giudicare un autore (ammesso che il nostro giudizio serva a qualcosa), bisogna dirne sinceramente insieme il positivo e il negativo che se ne pensa senza tuttavia pretendere di for­mulare una valutazione definitiva e inappellabile. Del resto, la conoscen­za del nostro simile, anche quando ci sforziamo di essere obiettivi, è ine­vitabilmente il risultato di un confronto con noi stessi, cioè con nostri personali riferimenti convenzionali. E non potrebbe essere altrimenti, lo, per esempio, non so apprezzare un uomo soltanto per quello che fa, ma anzitutto per i fini che persegue nel contesto della sua vita privata e, in rapporto al suo livello culturale, anche sociale. Un grande pittore mi la­scia indifferente se asserve la sua arte alla venalità e all'egoismo; un me-diocre artigiano può valere molto di più se vive ed opera ispirandosi a ideali di bellezza e di pulizia morale. Dei nazisti erano fisicamente tanto belli quanto mostruosamente crudeli. Perciò non riesco a distinguere l'ar­tista Moravia dall'uomo Moravia.

Del primo ci sono sessant'anni di brillante carriera letteraria, che ne danno oggettiva testimonianza. Carriera che, come ormai tutti sanno, eb­be inizio nel 1929 con la pubblicazione de Gli indifferenti, titolo emble­matico di uno scetticismo sereno, tutto borghese, del resto, che lo ac­compagnerà per il resto della vita e che spiega, magari in termini buoni, certi suoi atteggiamenti ambigui. Quello, per esempio, del rifiuto dell'eti­chetta di scrittore impegnato, rifiuto dietro cui può esserci tanto un atto di disprezzo — tutto medio — borghese — dell'impegno come alienazio­ne dell'arte fine a se stessa — quanto un encomiabile atto di sincerità. Tuttavia, non c'è certamente un disprezzo per i frutti pecuniari dell'arte stessa. Chi ha conosciuto personalmente Alberto Moravia, ne parla co­me di persona generosa e tollerante, ed è da crederci. La generosità e la tolleranza possono essere il prezzo facile (l'alibi) con cui un uomo mi­te e quieto paga l'incapacità dei grandi rischi. Per contro, l'ingenerosità e l'intolleranza, come la passionalità civile, contraddicono all'aurea tran­quillità del borghese medio. Anarchici e radicali sono spesso borghesi arrabbiati che si battono per un ideale dentro cui già vivono. Alberto Moravia, per lo meno, ha il merito di non essersi sprecato per degli abbagli.

Quello che non si comprende, o si comprende molto bene, è l'esal­tazione inscenata dall'ex PCI per il «grande contestato del '68» quale fu Moravia da parte degli studenti del famoso movimento.

Altro segno, positivamente ambiguo, è l'ammissione (da parte del Moravia) di non piacersi e di non piacergli rileggersi. Se sincera, siffatta ammissione può confermarci il fenomeno, del resto frequente, di un «de­mone medianico» che ci vive dentro come una seconda persona, con cui ci si identifica perché ci fa importanti e famosi, ma verso cui, fuori dei momenti d'ispirazione e di grazia (di «stato medianico») ci si può sentire perfino estranei. Forse il vero Moravia era l'«indifferente» (indifferente an­che se stesso!) come ci suggeriva la sua espressione pacata, più eviden­te negli ultimi tempi. Quanto è... complessa l'unità dell'«io»! Ce ne da con­ferma lo stesso Moravia attraverso la lunghissima intervista concessa ad Alain Elkann, raccolta nel libro Vita di Alberto Moravia che Bompiani ha presentato alla «Fiera internazionale del Libro» di Francoforte, e di cui l'Espresso del 23 settembre 1990 ha anticipato alcune «voci». È attra­verso queste «confessioni (Dio solo sa quanto convenzionali) che Moravia, fuori dell'imperio del... demone interiore, ci rivela la sua umanità, pa­radossalmente proprio dal suo imbarazzo a parlare di se stesso, avendo­lo fatto nella sola maniera in cui può farlo un narratore nato, cioè «nar­randosi» nei suoi personaggi e nelle vicende attribuite agli stessi. Donde la verità inoppugnabile del carattere virtualmente autobiografico ed «ego-centripeto» della produzione letteraria (realizzata sotto una specie di ne­cessità medianica) e che lo stesso considera come il filo conduttore del caos della vita. Il concetto trova ulteriore conferma a proposito dei poeti che Moravia considera (e a ragione) deludente conoscere perché il poeta (inteso come costruttore di versi) è integralmente tale solo nel momento in cui «crea», dopo di che riveste i panni di un uomo qualunque con le sue banalità e le sue cattiverie. La considerazione va estesa a tutti gli operatori (medio-borghesi) dell'arte e della cultura.
Di estrema potenzialità speculativa considero il suo trovare «estetica la tensione morale» e ritengo un vero peccato che il grande scrittore non abbia spinto l'intuizione al di là del «quieto vivere borghese».

Forse hanno ragione alcuni critici nel paragonare il Moravia maturo a una trottola che gira vorticosamente intorno a se stessa, illudendosi di spaziare. Ma se si tiene conto della scheda giovanile dell'Autore (co­me prescindere dall'influenza della propria esistenza?!), bisogna concludere che come «borghese di elezione», ha perfino operato dei miracoli, non disdegnando di accostarsi, sia pure «senza impegno», agli ideali della sinistra rivoluzionaria (ovviamente ormai ridotti ad alibi simbolici di ex­militanti).