PREFAZIONE
Di
Gualtiero De Santi
Una nuova letteratura in lingua italiana sta sia pur lentamente nascendo e aprendosi adito in mezzo al marasma delle nostre patrie lettere. E la letteratura che descrive l'esperienza degli ultimi flussi migratori dei popoli nel nostro caso inseguente una direzione di marcia che dal sud del mondo risale verso l'Europa (e nel caso della nostra autrice, dal Mozambico al Portogallo e all'Italia, e poi alla Confederazione Elvetica). Quel che tuttavia si deve notare in prima battuta, è che non si tratta di scritture che si snodano sul piano della pura elementarità o del resoconto cronachistico di tali passaggi. E forse nemmeno di forme d'irregolarità in un ordine e disordine tradizionali. Quanto di una vera e propria gamma di sensazioni e pensieri, resi con genuina immediatezza, con chiara intenzione poematica e con un preciso e calcolato bilanciamento e controllo della lingua poetica.
I temi a tutta prima possono anche essere quelli che ci aspetteremmo da un'extracomunitaria. Ana Andrino Botelho esprime in fatto la nostalgia della vita fuggitiva e per lei svanita di un paese d'origine quasi sospeso in aria. Racconta anche il disagio della
separatezza e della lontananza soprattutto nelle bianche e ovattate città paludi (per usare una immagine che le appartiene) situate nel cuore gelido d'Europa. Ma lo scoramento che denunzia attraverso la poesia nasce infine da un turbamento esistenziale che ha le sue radici nella profondità della vita originaria: in una pienezza di luce e di colori in cui si vorrebbe essere e in cui si ha ripulsa ad essere, finalmente, in quell'infinità che si accende tra cielo e mare, come recitano la prima e l'ultima lirica in explicit con metodica
circolarità.
Insomma nella reversibilità delle contrastanti esperienze raccontate o quantomeno condotte ad evidenza nei versi, scorre una qualche
détresse esistenziale. Nella quale tuttavia la nostra autrice non s'irrigidisce oppure s'ingroviglia in alcuna maniera e della quale non fa spettacolo. E in cui anche non disperde miseramente le emozioni e sensazioni primarie, articolate in giunture tralucenti e nel colorismo acquarellato dei versi. Non c'è conflitto tra l'io poetico e
il proprio bagaglio memoriale. Forse anche in ragione di ciò, la poesia s'innesta giù in verticale dentro la propria materia incline al rinvenimento - o almeno al vagheggiamento - degli elementi essenziali. Un mondo non eclissato nella sua parte in ombra riemerge nella campitura dei brevi versicoli, nei quali s'afferma il segno più chiaro e lineare.
Del resto è notabile proprio questo: che nell'istante in cui la scrittura lirica si volge all'affermazione e al ritrovamento attraverso le immagini della propria natura inferiore, tutto ciò si realizzi attraverso una forma metrica - quella del sillabato - e una marcata accentuazione della parola, che richiamano le vicende della rinascita della nostra poesia italiana ad inizio del secolo trascorso. Saremmo portati ad escludere che questo avvenga per un richiamo a un modulo solo ermetizzante o estensivamente ungarettiano (quantunque la nostra autrice possieda e nomini anche lei i propri fiumi tutelari, il Tago e il Tevere, e poi i grandi corsi d'acqua del paese africano). Certo non è da escludere che ne abbia conoscenza e consapevolezza. Ma, infine, si tratta non già di una convenzionalizzazione del senso e della scrittura quanto invece di una forma d'analogia, che in tal senso appare sintomatica.
Così, tra il dettato formale e le ragioni intime della lingua si intesse un retìcolo inestricabile. Sono somigliarne immateriali (per dirla con Benjamin) che implicano una concomitanza profonda, in qualche modo strutturale. In una poesia sfrondata del troppo e del vano, e dove si tenta il recupero esistenziale e morale anche attraverso una dimensione metafisica, un tale asserto non ha in fondo bisogno di eccessive specificazioni. Contano le parole e i silenzi, tirati a filo di squadra. Conta l'impaginazione della scrittura nello scenario e nelle curvature della pagina. Ma in queste poesie inclinate a una cognizione non banale delle cose, la parte formale non si sviluppa semplicisticamente con lampeggiamenti intuitivi, non è solo un rivolo che pure scorra e respiri: all'opposto è costruzione di un tessuto e di zone definienti del linguaggio a muovere da quel seme essenziale della parola isolata nel verso.
Dunque in questa poesia la sequenza per così dire sintattico-lirica si ordina nel rapido incalzare delle immagini e in una loro interna attrazione:
"cadevano / gocce di sole / mandarini", e poi nella strofa successiva,
"mi sedevo / tra il loro silenzio / mi piegavo in spicchio / aspettandole" (dove la prima associazione goccie-man-darini di tipo sinestetico richiama alla modalità del ripiegamento mostrato in seguito). Ugualmente in questa seconda composizione il concatenamento delle strofe e delle figure avviene anche per contrasto di lemmi e alonature semantiche: tali ad esempio Selene-Sole o luce-ombra. Questo sino a pervenire nella strofa finale al recupero di elementi già contenuti nella lirica (il ripiegare in se stessi, il sedersi sotto gli alberi, la caduta di ogni suono o voce):
"mi prese Selene / nella sua culla / mi coprì di sogno / mi confuse il nome // l'indomani / chiese al Sole un'ombra // la piegò / in spicchio / la fece sedere / nel loro
silenzio".
Un'uguale attrazione agisce sulle singole parole quasi determinando le sequenze sillabiche o accentuative ("sono / sola / senza / solitudine / sono / solitudine / senza // nessuno"). L'organizzazione strofica in verticale muove sì dall'acquisto dell'intensità espressiva dei singoli lemmi, ma li unifica in una catena unificante e in sé metrificante. Con l'effetto di liberare e spargere le parole sulla pagina stessa, e con una suggestione quasi sperimentale e visiva. È un crescendo di partizioni e slittamenti che dalla composizione sopra citata procedono sino a quei passaggi dove le singole lettere e le sillabe (le sillabe-gazzella) si scorporano dalla riga in una sorta di
effectuum perturbationis provocato dal dolore:
L'esito indotto è la lacerazione delle parole, il loro smembrarsi e cospargersi sul foglio. Ma ancora una volta, pur sull'abbrivio di un intormentimento e un delirio provocati dall'assenza di ciò che si sa familiare, la ragione profonda gioca sugli abbagli dello scivolare verso una infinità dove tutto si sospende e soltanto si lascia
attraversare ed accendere da lampi di colore che toccano lancinanti i sensi: l'azzurro croma maggiore, ad es., nel quale pure ci si acquieta, il cervo bianco e il garofano bianco con gli effimeri petali striati di sangue, i prati verdeggianti e la terra rossastra, lo sguardo nero dei pensieri. Il traguardo è lo smarrimento dell'esistenza nell'infinito, il suo vibrare oltre l'orizzonte, dentro le profondità dell'oceano, in una linea che spinge l'angolazione soggettiva verso una sorta di surrealtà e di purezza metafisica.
La garanzia - come s'è detto - risiede nella poesia e nel suo canto, atlantico o mediterraneo che sia, ma entrambi hanno a fondamento la verità dell'esperienza esistenziale e altrettanto la tensione verso una forma d'assoluto. Così, scrive la nostra autrice, "mi perdo ad ogni istante / mi perdo nell'istante in cui mi perdo / mi perdo nell'istante in cui il tempo si è dimenticato". Di lì il gioco di bravura - e le embricature della lingua - che trascolorano nell'ambiguo inebriante proliferare e precipitare delle sensazioni: "l'essere / non / sono // dileguato // immensi / spazi // arancione".
Una tale vertigine suppone la dispersione ma anche la ricerca del senso e dell'identità, lo smarrimento e
l'annichilimento del proprio corpo e della mente ma anche lo spingersi sino a un limite della soglia di coscienza, dove la memoria distenebrata nei meandri delle sensazioni e delle nostalgie ritrovi infine la profondità delle cose nel loro stato incondito. |