Andrea Costa non proviene dai terreni della letteratura, non conosce
il decadente epigonismo di questi ultimi vent'anni di storia poetica
italiana, non sollecita i tre maggiori neo-ismi circolanti (neoorfismo,
neoermetismo, neoavanguardismo), si limita a coltivare con sagacia il
suo campo squadrato, dove matura i suoi frutti, nonostante le
perniciose dubbiezze della vita.
La sua è una poetica del quotidiano, vissuto come ispirazione e
luogo di scrittura: ridispone sulla pagina l'immaginario crepuscolare
per l'andamento colloquiale del discorso e per l'affollarsi sulla scena
di oggetti consueti, in altri tempi avremmo detto "umili".
Erba cattiva, convincente esordio del Nostro, è il romanzo in
versi di una sgomenta formazione inferiore, adombra il rapporto
distratto fra natura e autobiografia, concentra sul vissuto le tensioni
di affetti logori, valuta la cancellazione individuale nella massa
irreale e rassegnata. Che si tratti del genere bildungsroman lo rivela
la riduzione dell'esperienza a orizzonte dove tarda a comporsi in
limpidezza la relazione tra la coscienza e le cose ("È un
cammino in un viale alberato/un rastrello di ombre allungate").
Non pare dubbio che nella scrittura di Andrea Costa campeggi la maniera
realistica, tra oggetti emblematici ("il rumore dei piatti a puntellare
il silenzio") e qualche oleografia ("Mi sono perso di nuovo nei budelli
di questa città").
L'Autore ripercorre all'indietro, nel grigiore quotidiano, il mondo
delle affinità parentali, sorretto da una malcelata inquietudine:
alla madre rivolge un "aspettavo mi imboccassi con la vita", al padre
confessa vicissitudini accanite: "Ho intravisto il tempo fulmineo
rubarsi un altro poco di te". La stessa trepidazione amorosa viene resa
con la connotazione del tormento, descrivendo l'aura femminile "nera e
liquida come il peccato", né comporta sollievo alcuno la
schopenhaueriana compassione per i reietti della tracotante
società dei consumi: "Uomini di stracci coperti di
giornali/sommersi di parole".
Se l'intenzione morale salvifica si arresta di fronte al muro della
realtà, emerge un aspetto interessante della raccolta: il culto
nobilitante della letteratura.
La poesia compare nella vicenda personale di Andrea Costa con i
caratteri del mutamento profondo; la rottura dell'equilibrio
esistenziale ci convince che i nostri tempi disgraziati necessitano non
di altri messaggi o di altra finta pedagogia sociale (fin troppi
maestri di pensiero si odono da mane a sera), piuttosto di una spina
emotiva che ci solletichi, ci punga, ci faccia ridere e piangere,
destandoci dal torpore del superomismo di massa.
Erba cattiva si struttura come un diario analitico, nel quale brandelli
separati, in apparenza non collegati, si affastellano secondo una
tecnica di montaggio cinematografico (iter compositivo e ordine delle
parole seguono la modalità impressionistica di piccoli frammenti
che si completano, quanto a senso e funzionalità
ritmica-melodica).
Comuni brani di paesaggio si ripetono e per la loro familiarità
ricongiungono la percezione esterna ai moti interiori dell'animo ("e mi
è rimasto un dolore dietro agli occhi sulla strada del lavoro").
Questo assomiglia molto al fare a pezzi il proprio destino, per
ricomporlo, giustificarlo nell'universo della scrittura poetica, che
accoglie volentieri blandimenti e salutari illusioni. Se le lancette
della temporalità si sfilano dal loro perno, diviene compito
dello scrittore riassemblarle cartesianamente.
Detto in questi termini si comprende il frequente ricorso all'immagine
della goccia, che divaga in vapore o sparisce confondendosi in pioggia;
si tratta della monade-mondo che ha perduto la sua unicità e
identità per divenire preda di un paesaggio percorso da una
catturante solitudine. Più che un simbolo della condizione
umana, la goccia rappresenta il segnale dell'intima contraddizione fra
la romantica aspirazione a un faustismo di provincia e i toni
crepuscolari della fuga e dello sperdimento ("Dentro un treno lanciato
nella pioggia/a questa fermata della mia vita/grave sento il fardello
della mia indole./.../E in questa goccia vorrei smarrirmi/minuscolo
mondo di fronte al mio/ma come rifugio, immenso".
Erba cattiva ripropone la vecchia dicotomia città-campagna con
le antiche frustrazioni che si rinnovano nelle accelerazioni forsennate
della routine urbana come nel tempo mitico della campagna , rallentato,
scandito da precisi eventi stagionali. Non a caso il riposo è
concesso solo nella quiete naturale, mentre lo scontro con la
città è vissuto nella commisurazione impari fra assoluto
e contingente. Non so se si possa parlare di una visione passatista o
di una più moderna ecologia della mente, che reclama spazi di
riflessione e di intendimento approfonditi, è certo che i testi
qui in esame si caricano di molteplici significati: dal sogno agreste
("I miei occhi si placano fra i campi e i fossati"), al ricordo
nostalgico ("Ponte rosso appeso fra la realtà e il
ricordo/appoggiato sopra il fianco di una curva"), alla identificazione
con il dramma dei nativi americani, il capo apache Geronimo in
particolare, ("mi consola pensare.../che anche il più grande
guerriero è costretto a scappare"), al rifugio consolatorio
nell'assordante musica rock ("Un riff affilato di chitarra"), per
finire con la citazione verghiana di Paride il matto ("mentre il paese
dorme/un guerriero non si arrende"), che richiama il personaggio dei
Malavoglia, Rocco Spatu, sempre sveglio mentre gli altri attendono nel
sonno di iniziare un 'altra faticosa giornata, in lotta con le
sopraffazioni e le angherie dei notabili e della sorte.
In Erba cattiva questi eterogenei tessuti formali e contenutistici
vengono amalgamati con intelligenza e senso della misura, a
dimostrazione di un non disprezzabile talento compositivo.
Andrea Costa non crede nella letterarietà, non è ammalato
di scetticismo relativistico a tutti i costi, per questo assegna al
linguaggio la funzione di verità, plurale e non obbligata al
conformismo.
/ suoi testi non sono appesantiti da gravezze metaforiche, né da
abusati schemi di poetichese. Alcune espressioni palesano freschezza
espressiva che si intreccia con la capacità di restituire il
vissuto, fuso e trasformato, in una testimonianza rivelatnce: "Occhi
bassi a seguire disegni di cibo nei piatti/.../ e parole che non
vogliono salire/come sassi appoggiati in fondo a me".
Attraverso l'intenzione diaristica l'Autore contempla e rinnova se
stesso (smarrimento, scoperta, inventiva dei sentimenti), riuscendo a
stratificare e a far crescere in nuove combinazioni il senso della
realtà ("Un saltare le liane/fra luce e il buio/divisore
infinito di giorni e notti/.../ E un fermarsi nei punti asciutti/a
guardare le zone bagnate/E sperare non piova mai più").
Erba cattiva si distingue per i valori semantici delle parole che
accolgono echi suggestivi, detti di un presente afferrabile e non
afferrabile com'è nella congerie di ciò che possiede
natura transeunte e corruttibile.
La trasparenza del dettato, l'ariosa contabilità compensano
validamente le opacità del contenuto, dovute alle sconfitte
personali e agli ispessimenti del dolore.
In esergo auguro a questi versi di essere destinati a risuonare e a non
finire troppo presto imbiancati dal ricordo e dalla dimenticanza.
Nereidi, 3 dicembre 2003
Donato Di Stasi