Per continuare a leggere poesia, e ancor più duramente a com-porla, bisogna superare i luoghi dell'afasia, oltrepassare le Colonne d'Ercole della disintegrazione morale e culturale, altrimenti si sfoglia e si riempie carta straccia, nella quale non si soffre un milionesimo dell'inquietudine e del vuoto di cui si ciancia.
Quando capita di imbattersi in un poeta ulissiaco la cui palpabile specularità riflette traiettorie logiche, significati afferrabili, itinerari etici finalmente percorribìli, allora si manda in gloria il reperto critico di circostanza e si inizia a scrivere con convinzione.
Con un doppio salto mortale Gianluca Di Stefano si libera di due ingombranti predecessori, I fiori del male di Charles Baudelaire e Il mal de' fiori di Carmelo Bene, per approdare a un libro che insiste su una vena ironico-meditativa, capace di risoluzioni diverse dal semplice soccombere ai veleni della quotidianità, alle gibbosità delle relazioni sentimentali, ai grumi di dolore che si rapprendono sotto gli occhi del lettore.
Nella ricerca delle vita autentica l'Autore traccia i limiti della norma umana attuale, addita disagi e umori della contemporaneità ("In questo strano mondo/in cui spegnere la tv e aprire un libro/è un gesto irresponsabile e sovversivo//In questo strano mondo/in cui convivono miti & scimuniti").
La personalità di Gianluca Di Stefano è quel golfo d'ombra che strologa l'abominio per i guerrafondai ("Cadono stelle da obici definiti intelligenti"), che non lesina sarcasmo per il volto più patetico della poesia seriosa ("Faccio il verso al poeta, se volete, per dispetto"), che lascia incisi sulla scorza della realtà graffi profondi ("e ci vuole culo/e ci vogliono le palle/per le strade dei mondo").
Non ricorre il generico e banale contemptus mundi, il disprezzo umanistico per l'abbrutente sovrastruttura tecnica della società, quanto una lucida coscienza demistificante che vorrebbe polverizzare e rigenerare l'esistenza, riplasmando in un'ontologia plurale la solitudine di tenebra e fango delle odierne metropoli ("Tutti vorremmo che gli altri ci guardassero ora come il centro dell'universo").
Dalle spoglie della Storia emerge un mondo oltraggiato, precipitato dalla spiritualità al più sordido feticismo delle merci, nozione tipicamente settecentesca, fra deismo e renovatio mundi, che innesca la generosità utopica dei riformatori, di quello speciale riformismo illuministico lombardo che ancora oggi, a quanto vedo, si adopera coraggiosamente per una concreta palingenesi ("Ognuno di noi è più di uno, è molti./In questo preciso momento un uomo sta facendo la conoscenza di un altro uomo").
Se I mali del fiore si apre su una mattinata vuota e si chiude su un cielo spento a ovest, disegnando una prospettiva di decadenza, non è da intendersi come una rinuncia a spingersi fino alle radici della speranza, piuttosto prevale il legittimo e temporaneo sconforto dell'intellettuale dalle mani bianche che si rifugiava nell'Ottocento nell'ammazzatoio dell'assenzio, e oggi più prosaicamente nel vino ("E quando piove vinazza/nella tazza/alzo il gomito/come ala per volare/e atterrare nel cantero dei sogni svaniti").
Nella crescente relativizzazione della realtà non più sommativa, ma moltiplicativa, risiede il tormento dell'assoluto, di natura specificamente poetica, non teologico-filosofica: dal demone angelico di Baudelaire alle irradiazioni cosmologico-buddhiste della beat gene-ration.
Di Stefano ravvisa con accortezza nell'accelerazione a tutti i costi dei ritmi sociali il furore dissennato di quest'epoca distruttiva che parcellizza fatti e discorsi e se li lascia sfuggire da tutte le parti.
Come Lucrezio e Tasso il nostro Autore orna la sua tavola di liquori, beve la pozione per resistere ai disastri e alle assurdità della sorte, sicuro che nessuna riconoscenza verrà concessa a chi si sobbarca la fatica di rinvenire una minima verità nelle cose.
Nondimeno nella sciocchezzaio odierno I mali del fiore invita alla ripulsa del conformismo tra un ruzzolare luciferino e uno spiraglio bestiale, collegando corpo e verbo nel gesto congruo della creatività ("Qualcuno è stato dappertutto e non ha scorto nulla./Altri hanno visto tutto senza uscire mai dalla culla./A noi basterebbe liberare i vestiti impiccati nell'armadio pasciuto/e sotto un cielo di benzina al tramonto che abbandoniamo bruciare/partire per un posto sconosciuto/solo prima di arrivare").
Il libro auspica una libera circolazione di idee, in cui il pensiero del singolo diniega la coartazione al consenso e all'obbedienza, vale a dire l'uniformità ai caratteri consumistici generali, salvandosi dalla falsa protezione della cultura massificata per affrontare in proprio il rischio del pensiero-rovello (Parise): con ciò si muove una seria prolesta contro i poeti laureati che disobbediscono nelle cose spicciole, marinettiane (frantumazione sintattica, dislocazione tipografica ielle parole), ma finiscono sempre per schierarsi con il sistema da cui esigono senza vergogna prebende e riconoscimenti (''Faccio il verso al vate/Piuttosto che con inciso sulla fibbia gott mit uns/Preferisco presenziare con le brache calate//Scrivo infantili fiabe per adulti/che hanno meno pretese e arroganza de in god we trust/Stampato sul biglietto degli indulti//Ma va là che è un fumetto/E l'imbianchino fischia il blues come una pernice").
Per questo I mali del fiore si propone come una rivisitazione voltairiana che avversa la grossolanità del presente e reclama una condivisa fondazione morale (in linguaggio kantiano una nuova metafisica dei costumi).
Si può appassionatamente sostenere che in fondo i valori (con termine aulico e ideologico) siano dotati di eternità e che basti enunciarli per trarli all'esistenza; si può anche ritenere che città e uomini non mutino mai negli aspetti profondi (le verità preesistenti), al contrario l'Affermazione Globale del Capitalismo ha cancellato questa meravigliosa illusione: non sono cambiate solo le condizioni econo-miche e culturali, bensì la stessa immagine del corpo, gli atteggiamenti, i gesti degli individui.
Prima era sufficiente attenersi a un ideale antico e giusto per entrare nel mondo da protagonisti quando veniva il proprio turno, adesso le città sono popolate di eterni adolescenti che non distinguono più bene e male, che mischiano volgarità, stupidità e adulazione, trasformando la trasgressione in becera consuetudine. In una simile realtà anche il ragazzo di Charleville dalle "suole di vento", Arthur Rimbaud, perderebbe la sua leggerezza di ribelle, la sua ispirazione a violare le leggi, la sua abissale visionarietà ("Sono troppo stanco per sedermi in deliquescenti pomeriggi su panchine pubbliche e scrivere col/ gesso «Merde à Dieu» ... //La mia altera impresa sarà scavare il Pozzo di Babele ... /e che Dio/bisogna pregare su questa panchina perche di grazia laggiù mi faccia accoppiare con un angelo").
I mali del fiore, ovvero la mostruosità della vita, brutta, pallida, nevrotica, e per contro il rimpianto metafisico del silenzio, la riflessione che nasce dall'attesa, la passione per il sensuale e l'ideale: tutto purché il denaro non lanci il suo sguardo di vittoria e la poesia non rimanga constatazione intollerabile che l'interiorità abbia valore soltanto per psicologi e psicofarmaci ("Voglio scendere dal mondo e dall'ombra che si eclissa/perché gira troppo forte e lesta/la mia Testa/e sedermi sull'unica stella fissa. /Là mi taglierete la testa e mi lascerete soltanto il cuore").
Se dalle condizioniantropologico-contenutistiche si passa a trattare l'aspetto formale dell'opera, ci si accorge di un rigoroso e personale lavorio linguistico che si contrappone alle asfissie e ai plagi dell'attuale stagione poetica. I mali del fiore ha il merito di una scrittura tagliente e affabulante, che contempla il privato, l'emotivo, l'irrazionale, ma non perde di vista il flusso della storia collettiva, utilizzando al riguardo griglie strutturali di tipo sillogistico, a dimostrazione di una matura consapevolezza compositiva ("Mi piacciono le bugie:/forma senza energia/Mi piacciono le poesie:/energia senza forma/Mi piacciono le energie/e le sue molteplici forme"). Nel giro della versificazione è sempre sotteso un calendario ritmico-rimico che si muove essenzialmente tra due figure retoriche: la ripetizione, attraverso la combinazione di allitterazione e paronomasia ("Come un soldato assoldato/da una pace mendace"), e l'accumulo secondo una configurazione a catalogo ("Eran le notti in cui i venti possono soffiare/urlare ululare fischiare/sussurrare lamentarsi spazzare/guaire zufolare chiurlare/spirare").
Ricorre spesso la connessione anaforica come nella intensa e ginsberghiana Naufrago in una vasca da bagno di città, dove l'incedere dell'incipit stabilisce un trasparente ininterrotto discorso con il Sé quale contraltare alla bisbetica frammentazione e miniaturizzazione della coscienza.
I mali del fiore associa le valenze ritmiche di una prosodia sincopata, modulata su una phonè sperimentale di derivazione blues o jazzistica, alle cuciture formali rappresentate dalle rime che si offrono come un collante della realtà lacerata ("è un poema senza fine e poiché, miserabile,/nulla finiva mai/sognai tutti i sogni possibili").
Un simile canone retorico segnato dalla rima non disturba affatto, nemmeno quando le sonorità diventano cantilenanti ("aggrappato ad un materno lembo//voglio conoscere il nome di ogni nembo), perché si percepisce una costante disposizione ironica all'unione degli aspetti più disparati dell'esperienza, per poterne derivare corrispondenze foniche (amplesso perplesso), analogiche (poesie, energie), ontiche ("È stato un semaforo giallo lampeggiante, //che mi ha dato la buonanotte").
Il libro di Gianluca Di Stefano non teme di arginare le frane di un "egro mondo immondo", né di puntellare la provvisorietà della vita con mordaci stilemi e tòpoi, così come è chiaro che la poesia non può servire solamente per commemorazioni, celebrazioni, premiazioni.
"Ad gloriam non est satis unius opinio" (Seneca): se è vero che l'opinione di uno non basta per raggiungere la gloria, da qualcuno bisogna pur cominciare. Intanto dalle infilzature critiche del sottoscritto che saluta un nuovo talento.
Donato Di Stasi