Il “chiaro del bosco” è per la spagnola María Zambrano quel centro dove non è dato di entrare in alcun momento. Osservabile tuttavia da una zona che lo delimita, ricco di voci alle quali si presta ascolto sino a quando non si sente più nulla e nulla più si incontra. “È un altro regno” scrive l’illustre pensatrice iberica, “che un’anima abita e custodisce”. Un regno – si potrebbe aggiungere sull’esca e sugli esempi della presente raccolta di liriche – che esiste prima di noi: che ci antecede ma può anche risalire alla luce e alla percezione dalle profondità della mente e del corpo.
La chiarità del bosco zambraniano tiene una qualche relazione con i “rifugi dell’essere” a cui si avvicina, attraverso depositi di memorie e ventate di luce, Aurelia De Martin Pinter. Luoghi dove tutto riconduce in direzione delle radici, verso un “sentire originale”, e dove i processi di trapasso designano una meccanica che oscilla nei suoi modi tra essere ed esistenza, tra la passività del provare e la forza indomita del conoscere.
In questi passaggi la poesia svolge una propria funzione rivelatrice e però anche unificante. Così, per dirla con una assai celebre formula dantesca, “Incipit Vita Nova” (che è nel nostro caso la vita della poesia, o la vita arrecata dalla poesia).
Quel linguaggio che nel titolo esplicita al massimo grado, pur entro termini che si vogliono di poetica ma che sono anche estetico-filosofici (con un richiamo evocativo, va ribadito per memoria, alla filosofia greca, se si vuole a un Parmenide, ma poi anche ovviamente a Heidegger e, infine, al Novecento filosofico e poetico); quel linguaggio insomma riappare variato nelle titolazioni delle singole liriche. Immagini-concetto che fabulisticamente contengono il senso dei grandi movimenti e delle trasmigrazioni poetico-concettuali, oltre che delle ardue ascese in verticale, come avviene per chi ricerchi l’essere.
Traversate, apparenze e trasparenze lucenti, correnti epocali, bagliori e lampeggìi inattesi. E poi, in correlato, immersioni e risalite, assenze/presenze e folgorazioni. Tutto un intricato e mosso universo nel quale si celano movimenti essenziali e limpidi, ritorni alla vita (e al fervere dei sentimenti) e ispirazioni, nascite ed esistenze interiori, presenza alla verità e risveglio della parola che tale verità poeticamente disvela e traduce nella nostra condizione e esperienza.
“Scrivimi parole, / dolci lame d’amore / nei solchi profondi del tempo, / indelebili accenti di vita / intrisi di noi / a ravvivare i silenzi / dei giorni spenti”. Le parole, quelle perdute o dimenticate, non possono più ritornare. Il senso del mistero che la poesia contempla con la sua natura non potrà mai più schiudersi. Le parole rimangono perciò quasi in una irrelata sospensione, ma a un passo da una loro definitiva esplicitazione e anche dalla possibilità di essere al tutto intese e comprese.La De Martin Pinter le lascia filtrare e correre con piena naturalezza e le trascrive sulle sue carte senza mai arrestarne il flusso, senza curarle e lisciarle secondo le regole esterne della retorica e della stilistica. Il sapere dell’ascolto esige infatti una fedeltà assoluta: credere che dal mondo dello spirito sopraggiungano segnali che debbano essere colti e però anche celermente trasposti.
Il bosco lo si deve infatti attraversare, scrive Zambrano. La scrittura dei versi (che Aurelia De Martin Pinter svolge con moto libero, non senza coinvolgenti intrecci di consonanze e assonanze) assolve a questa condizione. Ma è anche attraversata dalle cose: dalle sensazioni e dagli oggetti che ci circondano, che stanno dinnanzi a noi, come egualmente dalle pulsioni e dagli accenti segreti che insorgono a un dato momento dal centro vitale del mondo.
L’effetto che ne giunge è intentivamente abbagliante, anche perché inteso a illuminare la verità sensibile. Va a proiettarsi sulla linea dell’orizzonte e sui larghi profili di un paesaggio, naturale tanto quanto psicologico ed umano. Dalle cose del mondo – guerre, contrasti, le nostre innumerabili miserie - la poesia può anche essere distratta e deviata ma poi finisce col portare una propria impronta. Così all’interno del cerchio dell’essere – del “bosque” zambraniano – riesce anche a far capolino un minicanzoniere sentimentale che ordina e ricerca le stesse verità. E persino i conflitti bellici della nostra sventurata e comunque complicata modernità possono trovare una provvisoria soluzione nel controcanto della speranza.
Il mondo può insomma essere riscattato dalla poesia (salvato dai ragazzini, scriveva anni fa con bella immagine Elsa Morante). Ma affinché la poesia esista, deve sciogliersi dalle occorrenze esterne e all’opposto perseguire – verticalmente, trascendentalmente – un proprio percorso. Non dissimile da quello che María Zambrano ci fa vedere coi suoi “Claros del bosque” e che questa raccolta della De Martin Pinter attraversa e fende con la luce poetica di cui è capace e di cui la parola lirica la dota.
Gualtiero De Santi