Case, Luoghi, la Parola

di Mariella Bettarini

Recensione di Donato Di Stasi

"Case, luoghi, la parola" è l'opera di una disperata riconciliazione: io e tempo, natura e artificialità, logos e nulla.
L'azione poetica rifugge dal materiale dominio sul mondo per rinvenire la sua forza nella comprensione e nella compassione. La poesia si conferma gesto collettivo (Wittgenstein) e rivela la sua natura nel "fare insieme", nel "fare per un liberissimo scopo inutile quanto assoluto". Il gesto verbale puramente intellettuale si muta in azione corporea totale, si reimmerge nell'ethos sociale e tenta di dare visibilità all'incontro con l'Altro (koinonìa), superando l'invisibilità della solitudine, dell'emarginazione, delle sconfitte individuali. Mariella Bettarini lotta contro l'intercambiabilità delle parole soggette alle leggi dell'economia politica (Proust chiamava conversazione ciò che sfiora tutto senza approfondire nulla). La grande chiacchiera oppiacea è specchio del mercato, per questa ragione il poeta assume l'obbligo di Sottrarsi al consumo di massa dei luoghi comuni: le polivalenze del testo poetico devono opporsi alla univocità del discorso commerciale ("nella selva / splendente - nella selva e nel rovo - entro il roveto / (ardendo) / al buio-ai buio").
La poesia redime la natura interiore per riuscire a gettare un nuovo sguardo sulla natura esteriore (da ricostruire e umanizzare), evocando ciò che non è ancora, l'Altro, l'irriducibile.
Non è scontato che l'io si trovi di fronte a circostanze date per sempre, che nulla possa modificarsi del cieco potere di un universo snaturato (si torni alla rivoluzione musicale di Schoenberg, alla geometria estatica di Valéry). Nel lavoro della Bettarini si assiste allo sforzo critico e dialettico di ricomprendere il mondo naturale per alloggiarvi un io rinnovato.

Foto di Mariella Bettarini e Donato Di Stasi

Mariella Bettarini e Donato Di Stasi

La sezione con cui si apre la presente raccolta, "A S. Ilario", coniuga l'urgenza metafisica di Emily Dickinson con il tono auto-ironico, amaro di Palazzeschi, mentre sullo sfondo aleggia l'inesausta ricerca escatologica di Caproni.
Nei primi testi l'essere si nasconde e il senso appare solo nell'interrogazione, nello scarto, nella dissimmetria che si esplica nella reiterazione delle cesure interne al verso ("porta-riesce-centuplica i passi-li centellina").
L'ultima periferia, oltre la barriera dei quartieri, dove la strada prende il colore dell'erba; l'ultimo borgo di una collina intorno a Firenze il catechismo degli anni '50, una chiesa-parrocchia, una casa accogliente come le parole.
L'autrice scopre il luogo definitivo della sua mente, proprio come l'ultimo borgo di Caproni, qui il tempo si arresta nell'invalicabile dolore di ciò che è perduto per sempre. Le vite allora unite nell'esperienza religiosa sono ora divise dal nulla dell'esistenza:

"volesse il cielo non più rivolere
queste otto mimme ferme per sempre
sulla giocarella".

Parole leggere e semplici, ma che irrigidiscono il vuoto dell'assenza:

"mentre chi sa dove sono sciamate queste otto stelle dalla vita lanciate".

Nella poesia di Caproni compaiono tre luoghi al di là della natura: il primo appartiene ai Morti che non resuscitano, il secondo all'indefinibile Altro, il terzo all'inconsistente Vuoto. Mariella Bettarini rimane al di qua del mondo a interrogare le pietre, gli oggetti minimi in un'attesa epifanica di straniamente e di sorpresa:

"accostandoci a rincasare c'imbattemmo in tanta vita invasata tanti fiori dentro vasi per tanta vegetante gioia".

Anziché la metafisica dell'Assenza, l'Autrice rinsalda la sua metafisica della scrittura, fondata su un heideggeriano esserci-per-fare-insieme, riconfermata sacralità dell'atto poetico che si affida a "parola/chiara netta-per sempre stampata/ nel giorno-nella notte".
L'oggettività della parola scritta lascia trasparire tracce, indizi, sinopie dell'essere delle cose a noi intorno. La scrittura, come si legge in Écriture e Différance di Jacques Derrida, contiene la parola passata che comunica con la parola vivente di oggi per scoprire varchi nell'anima e riconciliarla con il corpo.
Al fondo rimane l'impossibile raggiungimento dell'aletheia originaria, individuata teoreticamente, ma si fa avanti una nuova verità puramente poetica, emozionale:

"...la verità-la verità poi è che si è fragili come pezzi di vetro".

La parola scritta riacquista storicità nella sua libertà, si apre alla destrutturazione che ne manifesta la pluralità di significati. Nella medesima direzione procede il verso de-grammaticato della Bettarini: le sue costruzioni ellittiche riducono la distanza dalle cose per lenire la peste del linguaggio di calviniana memoria:

"rinfoderati nei lor foderi
(spade-spade affilate) i libri
sono armi-sono-sogni-sono
giocattoli-oggetti di ventura-pezzi
di legno-prati-facce...".

Foto di Silvana Folliero e Mariella Bettarini

Silvana Folliero con Mariella Bettarini (a destra)

L'Autrice ricorre a parole-immagini non a proposizioni logiche. La tenuta è sempre lirica: le parole si negano, risorgono, si fondono secondo relazioni semantico-allitterative per unificare in una sensazione il tormento del tempo. Le parole improvvise come pugnali feriscono l'intera scena - una ferita celeste come avrebbe scritto Emily Dickinson. Dall'unità alla molteplicità dei significati si partecipa al progresso del pensiero e della frase; la rapidità del comporre quasi teme di lasciar sfuggire l'idea che nei versi si è impressa.
Sembrano accenni di ballata romantica, tanto è forte il temperamento della Bettarini che riesce con maestria a concretizzare i concetti dalle sole parole, creando segmenti lirici, intensamente fisici e spirituali:

"chi (tempesta) raccoglie queste senili-queste fanciulle nuche nelle teche del tempo-nelle nuvole?"

I1 logos di questa casa-poesia non varca lo stato di frammento. L'orizzontale verticalità delle sue linee-cesure persegue una terrena ciclicità. Demiurgia di un io poetante che invade Yhistoricus, prelevando grumi fonici dall'ambiente natio, valori contrappuntistici da compositrice dodecafonica, se non addirittura pantonale:

"caramellate-scultoree (da scalpello) scarnite vene nelle vene- conca (mariana) di vergini abbracci- cere- effuse cere (e perse) per persi calcoli di scultori-cerusici".

Nella seconda sezione, "La disertata", viene resa la fisicità dell'abbandono di un'antica dimora contadina, dopo la dichiarata impossibilità di abitare il passato.
Come gli attimi precipitano nell'abisso del tempo così i muri si sbreccano e rovinano. La soglia, il pavimento, il lavandino di pietra rappresentano gli esseri di questa casa colonica visitata nel 1993 per un set cinematografico e fotografico. Le travi, lo specchio, le ragnatele hanno visto sfilare intere generazioni con il carico ineluttabile del lavoro (le donne, in particolare, "morbida razza/di lavapiatti-sguattere-serve/ cuoche domestiche-fattrici").
La poesia si duplica nella macchina da presa rafforzando il tentativo di sottrarre al non-ricordo i luoghi e le persone.
L'Autrice volge un infuocato sguardo eracliteo alla "vegetale dolcezza" sopravvissuta agli anni e invita a cogliere al di là degli apparenti contrasti l'armonia insita nelle cose.
L'io poetante e la videocamera assolvono la medesima funzione unificante del reale, reinventando un linguaggio di rapidi fotogrammi e di vocaboli oggetti. La contiguità produce giustapposizione di suoni ("con il suo fondo affonda-affondalo se puoi/ e se non puoi-se non lo fai/ affondati"), a sua volta la continuità allitterante sospende il tempo meccanico in favore di una circolarità fonica che rumoreggia dentro le cose e le-rivela nella loro reificazione ("ragni-regni-catene come legami").
Mai come per questi testi poeta non è mimêtes (imitatore), ma eidolondemiurgos (facitore di immagini). Se la maschera dei fenomeni è necessaria per preservare l'enigma del reale, il poeta demiurgo è in grado di svelarne il segreto, ma lo rispetta in nome di un'etica sconosciuta alla moderna ermeneutica scientifica:

"ministero del farsi-fabbrica
d'evidenze-di mistero
laboratorio
di saperi-labirintica machina
da morte- memoria lunga/breve
mistico allestimento
messinscena potente".

Il montaggio delle sequenze rimanda a una nuova prospettiva, un nuovo orizzonte dell'essere-nel-tempo: il mondo delle presenze "vegetali-animali-minerali" crea accostamenti e scopre l'ombra duratura lasciata dagli oggetti. Le frequenti trasposizioni sensoriali alludono a processi di immedesimazione con il reale secondo una maniera espressionistica che nel Novecento italiano è debitrice a Clemente Rebora.
La tecnica analogica affastella sostantivi, il cui isolamento grafico distrugge la linearità sintattica della frase-armonia per delineare la dolorosa dialettica della vita dispersa nella materialità:

"e come monti-mari muti-sirene-polveriere
e sue polveri-evi-ori-gomene
e fil di refe-fil di spada-filo
di melograno".

L'ornatus della Bettarini muove verso una ricerca linguistica che riscatti l'atto morale e la passione civile dall'inutilità a cui sono stati condannati dalla sciatta banalità del Moderno: tutto è in pericolo, ogni ente attraversa il rischio di corrompersi, sfaldarsi, scomparire. Non dipende dalla poesia che la natura si salvi o no, ma all'azione poetica (al rinnovato rapporto di nominazione non convenzionale) è legato il valore della realtà. Sollevate dalla loro esperienza immediata, le cose vengono ri-presentate nella lotta contro il tempo e contro se stesse; la Bettarini stessa si eleva al di sopra dello stato lirico individuale creando significati universali:

"qua-muovendo sulla soglia
su questa soglia dire (dirmi)
poesia è - poesia è
di se stessa"

Nella terza sezione, "Il fotografo", la pagina diventa un budello sul quale la Bettarini batte le sue parole ritmiche: il bisticcio, l'accumulo, la paronomasia ("da forze fortunose/da lime e tagli da sbagli") compongono inusitati campi semantici, onde sonore ("ridiscendo...riaffioro...riaffondo") come archetipi di un inconscio collettivo che attende di essere riscoperto e portato alla luce, affinchè si ritrovi un'autocoscienza collettiva a cui riferire ogni nostra azione. Mariella Bettarini non è scrittrice in contumacia, non riduce i suoi testi a pretesti intellettualistici, al contrario la sua mitopoiesi procede come felice sintesi di sermo versus e sermo prorsus (moto circolare dei versi, moto lineare teleologico della prosa). Le parole sono attraversate da un'energia di taglio che genera significati nuovi per scartamento metrico-ritmico.

Nella foto da sinistra, Silvana Folliero, Mariella Bettarini, Donato Di Stasi, Velio Carratoni al sindacato Nazionale scrittori, durante la presentazione del libro della Bettarini

Mariella Bettarini e Donato Di Stasi

Mariella Bettarini sposta i vocaboli semanticamente in una diversa sfera di percezione, destandoli dai meccanismi automatizzati della lingua parlata dalla mallarmeana tribù. Ogni segno linguistico di "Case, luoghi, la parola" è costituito di Forma e di Forza. Se intorno si scorgono solo tavole spezzate, macerie, rovine, da queste occorre partire per ricominciare.
La scelta della casa come topos della costruzione-identità non risulta casuale, come pure la camera oscura del fotografo evidenzia la necessità di riprendere immagini che possano arginare la morte. Sulla superficie della pellicola e delle cose l'Autrice cerca una profonda ragione di vita, il suo sguardo è preciso, le sensazioni colte sono estremamente sottili, vicine allo stupore dell'essere:

"arrivato da dove parto
eccomi al parto
d'ogni inizio e fine
al fatale confine d'ogni me
d'ogni camera (sia camera
da collo - sia da letto).

"La casa del poeta", quarta sezione della raccolta, assomma una sincerità totale. È una coraggiosa poetica musicale (la musica è dentro ai versi non fuori), un'esplosione sperimentale di suoni. Si entra nella casa-natura che dialettizza il rapporto tra visione e gesto ("io nel letto-sempre nel letto/ le ho scritte e le scrivevo / le scrivo").
Si completa la poetica del corpo, finalmente emancipato dalla gnostica condizione materiale per mutarsi esso stesso in mente e coscienza, pensiero poetante. Fecondo senso dell'individuo, il corpo si configura come un plèroma di carnalità e intelletto, con cui Mariella Bettarini affronta la realtà, senza Sottrarsi al dovere di esecrarla ("vivo su di un ponte-io vivo due ferite"). Ella appare l'inesauribile abitatrice di un mondo-casa, rifugio e solitudine, scardinamento e sogno; per quanto cerchi di calmare le sue ansie, deve sopportare un'oggettiva marginalità per definire le cose che gli si presentano:

"la casa del poeta? del poeta?
chi l'apolide?
la casa
del senza-casa-dello sgombrato
dell'ingombro-dei nomade?

Se tutto è un continuo fuggire, il poeta è un nomade senza casa, sgombrato dalla banalità, naufrago approdato su nessuna isola. Non rimane che la casa dell'Anima e la Parola della sezione finale, dove l'Autrice sorprende il lettore con una mirabile teogonia al modo dei fisiologi greci: acqua che spegne il dolore, terra da mangiare, aria da insufflare, fuoco melodico che distrugge e purifica.
Di là dai regni segnati della scrittura (mito, favola, apologo, aforisma), al di qua dell'empireo, dei petali di luce che sfioriscono e cadono, l'unica salvezza rimane il ritorno alle forze ctonie ("prostrarsi sino a terra/ (sino alla terra) -interrarsi (bulbo) - fiondarsi (colomba)").
La natura permette un muoversi sorgivo dal centro della coscienza che si espande nel ritmo serrato dei versi: largo, arioso, oppure più spesso franto, spezzato.
Nel controluce critico appare l'intenzione innovativa e trasgressiva della Bettarini: la partitura lirico-espressionistica esorbita con la sua carica oscura e vitale dall'impianto metrico.
La sintassi (confrontata anche con altre sezioni) viene arricchita con arcaismi usati leopardianamente come neologismi (attossicato, augello, dulcedo, si favella), con neologismi veri (imbrillire, rimbrividisco) geneticamente compaginati agli strati più elementari della lingua (l'uso dominante del sostantivo).
I participi sono utilizzati nella funzione architettonica di ponte ("camicia sventolante/svolazzante crepuscolo"), gli enunciati sono brevi, condensati ritmicamente come vettori dinamici di stati fenomenologici ("treno che insegne la sua corsa/ freccia ferma e turpitudine").
Il confine grammaticale della Bettarini sembra essere interamente nelle forme agglutinate consonantiche ("spalare armenti-unguenti spalmati/spalmando restare nel guado (asciutti)-asciuttamente").
Lo scarto tra Parola e Ritmo indica una maniera espressiva antiletteraria, mai classicheggiante, dove ogni ripresa stilistico-tematica dagli autori amati (Dickinson, Rosselli, Whitman, Zanzotto, Caproni) è riproposta con estrema originalità, secondo una fusione-fluidità che lascia intravedere spazi di contaminazione, di ironia, di passione:

"sotto il loro-spellarle a sangue (sino al sangue)...
sino al carnascialesco martirio".

L'io collettivo dell'Autrice dirige a un pre-mondo comune di cose, paesaggi capaci di ridestare l'Altro dalla sua omologazione.
Certo Mariella Bettarini non può che offrire una disperazione aperta, ma è quanto basta perché la condivisione possa far scaturire i presupposti per l'incontro di coscienze-essenti, nella consapevole problematicità del vivere senza formulari di felicità, di cui nessuno dispone.

Donato Di Stasi