"Case, luoghi, la parola" è l'opera di una disperata
riconciliazione: io e tempo, natura e artificialità, logos e
nulla.
L'azione poetica rifugge dal materiale dominio sul mondo per rinvenire
la sua forza nella comprensione e nella compassione. La poesia si
conferma gesto collettivo (Wittgenstein) e rivela la sua natura nel
"fare insieme", nel "fare per un liberissimo scopo inutile quanto
assoluto". Il gesto verbale puramente intellettuale si muta in azione
corporea totale, si reimmerge nell'ethos sociale e tenta di dare
visibilità all'incontro con l'Altro (koinonìa), superando
l'invisibilità della solitudine, dell'emarginazione, delle
sconfitte individuali.
Mariella Bettarini lotta contro l'intercambiabilità delle parole
soggette alle leggi dell'economia politica (Proust chiamava
conversazione ciò che sfiora tutto senza approfondire nulla). La
grande chiacchiera oppiacea è specchio del mercato, per questa
ragione il poeta assume l'obbligo di Sottrarsi al consumo di massa dei
luoghi comuni: le polivalenze del testo poetico devono opporsi alla
univocità del discorso commerciale ("nella selva / splendente -
nella selva e nel rovo - entro il roveto / (ardendo) / al buio-ai
buio").
La poesia redime la natura interiore per riuscire a gettare un nuovo
sguardo sulla natura esteriore (da ricostruire e umanizzare), evocando
ciò che non è ancora, l'Altro, l'irriducibile.
Non è scontato che l'io si trovi di fronte a circostanze date
per sempre, che nulla possa modificarsi del cieco potere di un universo
snaturato (si torni alla rivoluzione musicale di Schoenberg, alla
geometria estatica di Valéry). Nel lavoro della Bettarini si
assiste allo sforzo critico e dialettico di ricomprendere il mondo
naturale per alloggiarvi un io rinnovato.
La sezione con cui si apre la presente raccolta, "A S. Ilario", coniuga
l'urgenza metafisica di Emily Dickinson con il tono auto-ironico, amaro
di Palazzeschi, mentre sullo sfondo aleggia l'inesausta ricerca
escatologica di Caproni.
Nei primi testi l'essere si nasconde e il senso appare solo
nell'interrogazione, nello scarto, nella dissimmetria che si esplica
nella reiterazione delle cesure interne al verso
("porta-riesce-centuplica i passi-li centellina").
L'ultima periferia, oltre la barriera dei quartieri, dove la strada
prende il colore dell'erba; l'ultimo borgo di una collina intorno a
Firenze il catechismo degli anni '50, una chiesa-parrocchia, una casa
accogliente come le parole.
L'autrice scopre il luogo definitivo della sua mente, proprio come
l'ultimo borgo di Caproni, qui il tempo si arresta nell'invalicabile
dolore di ciò che è perduto per sempre. Le vite allora
unite nell'esperienza religiosa sono ora divise dal nulla
dell'esistenza:
"volesse il cielo non più rivolere
queste otto mimme ferme per sempre
sulla giocarella".
Parole leggere e semplici, ma che irrigidiscono il vuoto dell'assenza:
"mentre chi sa dove sono sciamate queste otto stelle dalla vita lanciate".
Nella poesia di Caproni compaiono tre luoghi al di là della natura: il primo appartiene ai Morti che non resuscitano, il secondo all'indefinibile Altro, il terzo all'inconsistente Vuoto. Mariella Bettarini rimane al di qua del mondo a interrogare le pietre, gli oggetti minimi in un'attesa epifanica di straniamente e di sorpresa:
"accostandoci a rincasare c'imbattemmo in tanta vita invasata tanti fiori dentro vasi per tanta vegetante gioia".
Anziché la metafisica dell'Assenza, l'Autrice rinsalda la sua
metafisica della scrittura, fondata su un heideggeriano
esserci-per-fare-insieme, riconfermata sacralità dell'atto
poetico che si affida a "parola/chiara netta-per sempre stampata/ nel
giorno-nella notte".
L'oggettività della parola scritta lascia trasparire tracce,
indizi, sinopie dell'essere delle cose a noi intorno. La scrittura,
come si legge in Écriture e Différance di Jacques
Derrida, contiene la parola passata che comunica con la parola vivente
di oggi per scoprire varchi nell'anima e riconciliarla con il corpo.
Al fondo rimane l'impossibile raggiungimento dell'aletheia originaria,
individuata teoreticamente, ma si fa avanti una nuova verità
puramente poetica, emozionale:
"...la verità-la verità poi è che si è fragili come pezzi di vetro".
La parola scritta riacquista storicità nella sua libertà, si apre alla destrutturazione che ne manifesta la pluralità di significati. Nella medesima direzione procede il verso de-grammaticato della Bettarini: le sue costruzioni ellittiche riducono la distanza dalle cose per lenire la peste del linguaggio di calviniana memoria:
"rinfoderati nei lor foderi
(spade-spade affilate) i libri
sono armi-sono-sogni-sono
giocattoli-oggetti di ventura-pezzi
di legno-prati-facce...".
L'Autrice ricorre a parole-immagini non a proposizioni logiche. La
tenuta è sempre lirica: le parole si negano, risorgono, si
fondono secondo relazioni semantico-allitterative per unificare in una
sensazione il tormento del tempo. Le parole improvvise come pugnali
feriscono l'intera scena - una ferita celeste come avrebbe scritto
Emily Dickinson. Dall'unità alla molteplicità dei
significati si partecipa al progresso del pensiero e della frase; la
rapidità del comporre quasi teme di lasciar sfuggire l'idea che
nei versi si è impressa.
Sembrano accenni di ballata romantica, tanto è forte il
temperamento della Bettarini che riesce con maestria a concretizzare i
concetti dalle sole parole, creando segmenti lirici, intensamente
fisici e spirituali:
"chi (tempesta) raccoglie queste senili-queste fanciulle nuche nelle teche del tempo-nelle nuvole?"
I1 logos di questa casa-poesia non varca lo stato di frammento. L'orizzontale verticalità delle sue linee-cesure persegue una terrena ciclicità. Demiurgia di un io poetante che invade Yhistoricus, prelevando grumi fonici dall'ambiente natio, valori contrappuntistici da compositrice dodecafonica, se non addirittura pantonale:
"caramellate-scultoree (da scalpello) scarnite vene nelle vene- conca (mariana) di vergini abbracci- cere- effuse cere (e perse) per persi calcoli di scultori-cerusici".
Nella seconda sezione, "La disertata", viene resa la fisicità
dell'abbandono di un'antica dimora contadina, dopo la dichiarata
impossibilità di abitare il passato.
Come gli attimi precipitano nell'abisso del tempo così i muri si
sbreccano e rovinano. La soglia, il pavimento, il lavandino di pietra
rappresentano gli esseri di questa casa colonica visitata nel 1993 per
un set cinematografico e fotografico. Le travi, lo specchio, le
ragnatele hanno visto sfilare intere generazioni con il carico
ineluttabile del lavoro (le donne, in particolare, "morbida razza/di
lavapiatti-sguattere-serve/ cuoche domestiche-fattrici").
La poesia si duplica nella macchina da presa rafforzando il tentativo
di sottrarre al non-ricordo i luoghi e le persone.
L'Autrice volge un infuocato sguardo eracliteo alla "vegetale dolcezza"
sopravvissuta agli anni e invita a cogliere al di là degli
apparenti contrasti l'armonia insita nelle cose.
L'io poetante e la videocamera assolvono la medesima funzione
unificante del reale, reinventando un linguaggio di rapidi fotogrammi e
di vocaboli oggetti. La contiguità produce giustapposizione di
suoni ("con il suo fondo affonda-affondalo se puoi/ e se non puoi-se
non lo fai/ affondati"), a sua volta la continuità allitterante
sospende il tempo meccanico in favore di una circolarità fonica
che rumoreggia dentro le cose e le-rivela nella loro reificazione
("ragni-regni-catene come legami").
Mai come per questi testi poeta non è mimêtes
(imitatore), ma eidolondemiurgos (facitore di immagini). Se la
maschera dei fenomeni è necessaria per preservare l'enigma del
reale, il poeta demiurgo è in grado di svelarne il segreto, ma
lo rispetta in nome di un'etica sconosciuta alla moderna ermeneutica
scientifica:
"ministero del farsi-fabbrica
d'evidenze-di mistero
laboratorio
di saperi-labirintica machina
da morte- memoria lunga/breve
mistico allestimento
messinscena potente".
Il montaggio delle sequenze rimanda a una nuova prospettiva, un nuovo
orizzonte dell'essere-nel-tempo: il mondo delle presenze
"vegetali-animali-minerali" crea accostamenti e scopre l'ombra duratura
lasciata dagli oggetti. Le frequenti trasposizioni sensoriali alludono
a processi di immedesimazione con il reale secondo una maniera
espressionistica che nel Novecento italiano è debitrice a
Clemente Rebora.
La tecnica analogica affastella sostantivi, il cui isolamento grafico
distrugge la linearità sintattica della frase-armonia per
delineare la dolorosa dialettica della vita dispersa nella
materialità:
"e come monti-mari muti-sirene-polveriere
e sue polveri-evi-ori-gomene
e fil di refe-fil di spada-filo
di melograno".
L'ornatus della Bettarini muove verso una ricerca linguistica che riscatti l'atto morale e la passione civile dall'inutilità a cui sono stati condannati dalla sciatta banalità del Moderno: tutto è in pericolo, ogni ente attraversa il rischio di corrompersi, sfaldarsi, scomparire. Non dipende dalla poesia che la natura si salvi o no, ma all'azione poetica (al rinnovato rapporto di nominazione non convenzionale) è legato il valore della realtà. Sollevate dalla loro esperienza immediata, le cose vengono ri-presentate nella lotta contro il tempo e contro se stesse; la Bettarini stessa si eleva al di sopra dello stato lirico individuale creando significati universali:
"qua-muovendo sulla soglia
su questa soglia dire (dirmi)
poesia è - poesia è
di se stessa"
Nella terza sezione, "Il fotografo", la pagina diventa un budello sul quale la Bettarini batte le sue parole ritmiche: il bisticcio, l'accumulo, la paronomasia ("da forze fortunose/da lime e tagli da sbagli") compongono inusitati campi semantici, onde sonore ("ridiscendo...riaffioro...riaffondo") come archetipi di un inconscio collettivo che attende di essere riscoperto e portato alla luce, affinchè si ritrovi un'autocoscienza collettiva a cui riferire ogni nostra azione. Mariella Bettarini non è scrittrice in contumacia, non riduce i suoi testi a pretesti intellettualistici, al contrario la sua mitopoiesi procede come felice sintesi di sermo versus e sermo prorsus (moto circolare dei versi, moto lineare teleologico della prosa). Le parole sono attraversate da un'energia di taglio che genera significati nuovi per scartamento metrico-ritmico.
Mariella Bettarini sposta i vocaboli semanticamente in una diversa
sfera di percezione, destandoli dai meccanismi automatizzati della
lingua parlata dalla mallarmeana tribù. Ogni segno linguistico
di "Case, luoghi, la parola" è costituito di Forma e di Forza.
Se intorno si scorgono solo tavole spezzate, macerie, rovine, da queste
occorre partire per ricominciare.
La scelta della casa come topos della costruzione-identità non
risulta casuale, come pure la camera oscura del fotografo evidenzia la
necessità di riprendere immagini che possano arginare la morte.
Sulla superficie della pellicola e delle cose l'Autrice cerca una
profonda ragione di vita, il suo sguardo è preciso, le
sensazioni colte sono estremamente sottili, vicine allo stupore
dell'essere:
"arrivato da dove parto
eccomi al parto
d'ogni inizio e fine
al fatale confine d'ogni me
d'ogni camera (sia camera
da collo - sia da letto).
"La casa del poeta", quarta sezione della raccolta, assomma una
sincerità totale. È una coraggiosa poetica musicale (la
musica è dentro ai versi non fuori), un'esplosione sperimentale
di suoni. Si entra nella casa-natura che dialettizza il rapporto tra
visione e gesto ("io nel letto-sempre nel letto/ le ho scritte e le
scrivevo / le scrivo").
Si completa la poetica del corpo, finalmente emancipato dalla gnostica
condizione materiale per mutarsi esso stesso in mente e coscienza,
pensiero poetante. Fecondo senso dell'individuo, il corpo si configura
come un plèroma di carnalità e intelletto, con cui
Mariella Bettarini affronta la realtà, senza Sottrarsi al dovere
di esecrarla ("vivo su di un ponte-io vivo due ferite"). Ella appare
l'inesauribile abitatrice di un mondo-casa, rifugio e solitudine,
scardinamento e sogno; per quanto cerchi di calmare le sue ansie, deve
sopportare un'oggettiva marginalità per definire le cose che gli
si presentano:
"la casa del poeta? del poeta?
chi l'apolide?
la casa
del senza-casa-dello sgombrato
dell'ingombro-dei nomade?
Se tutto è un continuo fuggire, il poeta è un nomade
senza casa, sgombrato dalla banalità, naufrago approdato su
nessuna isola. Non rimane che la casa dell'Anima e la Parola della
sezione finale, dove l'Autrice sorprende il lettore con una mirabile
teogonia al modo dei fisiologi greci: acqua che spegne il dolore, terra
da mangiare, aria da insufflare, fuoco melodico che distrugge e
purifica.
Di là dai regni segnati della scrittura (mito, favola, apologo,
aforisma), al di qua dell'empireo, dei petali di luce che sfioriscono e
cadono, l'unica salvezza rimane il ritorno alle forze ctonie
("prostrarsi sino a terra/ (sino alla terra) -interrarsi (bulbo) -
fiondarsi (colomba)").
La natura permette un muoversi sorgivo dal centro della coscienza che
si espande nel ritmo serrato dei versi: largo, arioso, oppure
più spesso franto, spezzato.
Nel controluce critico appare l'intenzione innovativa e trasgressiva
della Bettarini: la partitura lirico-espressionistica esorbita con la
sua carica oscura e vitale dall'impianto metrico.
La sintassi (confrontata anche con altre sezioni) viene arricchita con
arcaismi usati leopardianamente come neologismi (attossicato, augello,
dulcedo, si favella), con neologismi veri (imbrillire, rimbrividisco)
geneticamente compaginati agli strati più elementari della
lingua (l'uso dominante del sostantivo).
I participi sono utilizzati nella funzione architettonica di ponte
("camicia
sventolante/svolazzante crepuscolo"), gli enunciati sono brevi,
condensati
ritmicamente come vettori dinamici di stati fenomenologici ("treno che
insegne
la sua corsa/ freccia ferma e turpitudine").
Il confine grammaticale della Bettarini sembra essere interamente nelle
forme agglutinate consonantiche ("spalare armenti-unguenti
spalmati/spalmando restare nel guado (asciutti)-asciuttamente").
Lo scarto tra Parola e Ritmo indica una maniera espressiva
antiletteraria, mai classicheggiante, dove ogni ripresa
stilistico-tematica dagli autori amati (Dickinson, Rosselli, Whitman,
Zanzotto, Caproni) è riproposta con estrema originalità,
secondo una fusione-fluidità che lascia intravedere spazi di
contaminazione, di ironia, di passione:
"sotto il loro-spellarle a sangue (sino al sangue)...
sino al carnascialesco martirio".
L'io collettivo dell'Autrice dirige a un pre-mondo comune di cose,
paesaggi capaci di ridestare l'Altro dalla sua omologazione.
Certo Mariella Bettarini non può che offrire una disperazione
aperta, ma è quanto basta perché la condivisione possa
far scaturire i presupposti per l'incontro di coscienze-essenti, nella
consapevole problematicità del vivere senza formulari di
felicità, di cui nessuno dispone.
Donato Di Stasi